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giovedì 28 novembre 2024

Il «tacchino induttivista» il giorno del Thanksgiving


Oggi, 28 novembre, negli Stati Uniti si festeggia il Thanksgiving Day, una ricorrenza nata nel 1621, quando i Padri Pellegrini, con l'aiuto dei nativi americani Wampanoag, celebrarono un raccolto abbondante. Proclamata festa nazionale nel 1863 da Abraham Lincoln, il Thanksgiving è simbolo di gratitudine, famiglia e... tacchini.


E proprio un tacchino è il protagonista del celebre aneddoto del «Tacchino induttivista» di Bertrand Russell, contenuto nel suo libro I problemi della filosofia (1912). Si immagini un tacchino molto felice poiché ogni giorno alla stessa ora il contadino si avvicina con una bella scodella di mangime. Dopo settimane di osservazioni, il nostro tacchino conclude scientificamente che «il contadino mi ama e mi nutrirà per sempre». Poi arriva il giorno del Ringraziamento e... il tacchino scopre, a sue spese, quanto sia pericoloso fidarsi troppo dell'induzione.


Tale aneddoto, oltre a strapparci un sorriso amaro, pone una critica al ragionamento induttivo, ovvero l'idea che osservare il passato possa garantirci certezze sul futuro.


La questione affonda in tempi moderni le sue radici nel «Trattato sulla natura umana» (1739) e in altre opere di David Hume. Hume sottolinea come non vi sia una giustificazione logica per credere che il futuro debba assomigliare al passato. Secondo il filosofo, l'induzione non è una certezza razionale, ma solo una abitudine mentale (un fattore psicologico potremmo dire). Vediamo due eventi ripetersi insieme (come il cibo che arriva ogni giorno per il tacchino) e costruiamo aspettative, senza alcuna garanzia che ciò continuerà. In particolare, per Hume non esiste una base logica per affermare che gli eventi futuri seguiranno le stesse regolarità osservate nel passato. Ad esempio, il fatto che il sole sia sorto ogni giorno non garantisce che sorgerà domani. L'induzione si basa sul principio che la natura è uniforme (cioè che le leggi del passato valgono per il futuro). Ma questo principio può essere giustificato solo tramite l'induzione stessa, creando un problema di circolarità nel ragionamento. Non meno importante è il problema della causalità. Infatti, Hume nella sua critica mette in discussione l'idea che possiamo conoscere relazioni causali con certezza. Secondo il filosofo scozzese, ciò che percepiamo non è la causalità in sé, ma solo una costante congiunzione di eventi (A seguito da B). La connessione causale è solo una costruzione mentale, non un fatto osservabile.


Come è noto, Karl Popper, in un contesto epistemologico nella sua «Logica della scoperta scientifica», riprende la critica all'induzione proponendo il falsificazionismo. Invece di confermare una teoria con osservazioni ripetute, Popper invita a cercare di falsificarla attivamente con esperimenti. Il tacchino, forse, avrebbe dovuto chiedersi: "E se il contadino avesse un coltello nascosto dietro la schiena?".


In tempi recenti Nassim Nicholas Taleb, nel suo libro «Il cigno nero. Come l'improbabile governa la nostra vita» (2007), riprende l'aneddoto per dimostrare quanto siamo vulnerabili agli eventi imprevedibili, i cosiddetti "cigni neri" che, quando si presentano, sconvolgono le nostre certezze e sono fonte di crisi come quelle finanziarie.


Tornando a Hume, la sua critica mostra come l'empirismo radicale mette in discussione le fondamenta stesse del sapere scientifico e filosofico. Hume evidenzia come i convincimenti sul legame causale e sulla prevedibilità dei fenomeni non abbiano un fondamento razionale ma derivino dall'abitudine e dall'esperienza, senza che vi sia alcuna necessità logica tra causa ed effetto.


Emanuele Severino, nei (cosiddetti) suoi scritti, sul fronte teoretico opera invece una critica più profonda e radicale alla struttura logica del pensiero occidentale che fa da sfondo a questo tipo di problematica. La filosofia severiniana si concentra sulla contraddizione implicita nella fede nel divenire e nella temporalizzazione dell'essere (vedi la formulazione «temporizzata» aristotelica del «pricipium firmissimum»). Per Severino, il pensiero occidentale, incluso quello empirista, è intrinsecamente nichilistico poiché presuppone, anche inconsciamente, che l'essere possa non essere (o diventare altro). La causalità stessa, in quanto presuppone un cambiamento temporale tra causa ed effetto, è una manifestazione di questa fede nel divenire. Quindi Severino pone la questione del principio di causalità su un piano ontologico e non solo epistemologico. Per il filosofo bresciano la causalità così concepita in Occidente, si fonda su un'interpretazione alienata della realtà. La convinzione che un ente possa produrre effetti o essere prodotto da cause implica un'adesione al paradigma nichilistico dell'ente che diviene altro.


Più specificatamente, la «causa» non «appare» come qualcosa di F-immediato (cioè immediato a livello fenomenologico) né come qualcosa di immediato sul piano L-immediato (logico). La causalità, così come intesa nella tradizione filosofica occidentale, è un concetto mediato, ossia costruito a partire dall'esperienza e dalla riflessione razionale che colloca gli enti in una relazione sequenziale (e condizionante). Severino sottolinea che ciò che appare nell'immediatezza fenomenologica è il legame essenziale tra gli enti e il loro essere, che è caratterizzato dalla necessità. Ogni ente è ciò che è e non può essere altrimenti, il che esclude la concezione tradizionale di causa come un fattore che condiziona e rende possibile l'essere di qualcos'altro. Quindi, nella prospettiva severiniana, il concetto di causalità appartiene alla lingua del nichilismo, perché implica che un ente possa essere null'altro che un risultato o un effetto, lasciando così aperta la possibilità che esso possa non essere.


Ad esempio, Emanuele Severino in merito al principio di causalità e, specificatamente, al parallelismo psico-fisico, dice in «Lezioni Milanesi. Il nichilismo e la terra (2015 - 2016)»:


«[...] Che condizionamento vuol dire causazione: causazione da parte del diventar altro. Il diventare altro causa; le forme specifiche del diventar altro causano l'apertura della mente. Ma causazione vuol dire principio di causalità. Non mi stancherò mai di elogiare il neopositivismo originario, quello di Carnap, Schlick, e Neurath, che oggi tende a essere snobbato. Loro non parlavano di causazione. Carnap, ad esempio, nel suo Der Logische Aufbauder Welt (La costruzione logica del mondo) parla di parallelismo psico-fisico: ti pianto un chiodo nella testa, poi constato che non ti comporti più come prima. Ma altro è constatare che prima c'è il fenomeno "a" e poi il fenomeno "b", altro è affermare che il fenomeno "a" è causa del fenomeno "b". Il principio di causalità non è il parallelismo psico-fisico.»

 

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Emanuele Severino (a cura di: Nicoletta Cusano), Lezioni Milanesi. Il nichilismo e la terra (2015 - 2016), Mimesis Edizioni, 2018 

 

 

mercoledì 27 novembre 2024

Se per Fernando Pessoa il poeta è un fingitore allora ChatGPT è il re dei fingitori – deliri macchinici e poesia (esperimenti)

Premessa

Una volta che la «macchina» ha acquisito – per un certo grado – il dominio sul dire, manipolando il linguaggio, è facile che sorgano domande e soprattutto perplessità.
È altresì comprensibile che si formino fronti contrapposti non solo su questioni a carattere etico ma anche riguardo la «semplice» interpretazione di ciò che la macchina «è» nella sua più intima essenza. Se da una parte il carattere macchinico sembra non lasciare spazio a illusioni su possibili frammenti di coscienza (nella macchina), un'analisi più profonda deve ammettere che quelle categorie che intuitivamente attribuiamo all'umano – «coscienza», «vita», «emozioni», «sentimenti», «intuizione», «creatività» – non sono così ben definite, sì che l'ambivalenza di fondo inerente il loro campo semantico rende sfumati i contorni sia di ciò che vorremmo perimetrare come squisitamente umano sia di ciò che vorremmo ben tenere lontano da esso e cioè l'essenza della macchina, nella sua concezione moderna, attuale. Le discussioni, le diatribe e le perplessità senza soluzione nascono da quegli interstizi il cui vuoto è dovuto proprio alle ambiguità semantiche con cui ci raccontiamo il mondo. Come esseri umani abitanti il pianeta Terra – che secondo l'«ipotesi di Gaia» è esso stesso un complesso sistema vivente – ancora pare che abbiamo le idee confuse sull'attribuzione della proprietà «vita» – come valore – al mondo animale e vegetale, basando il nostro rapporto con essi su assiologie umanocentriche di tipo convenientista. Se tali sono le premesse appare oltremodo complicato voler perimetrare le macchine soprattutto ora che emulano i comportamenti linguistici umani sia nella forma strutturale che contenutistica. In ciò apparentemente può venirci in soccorso il pensiero riduzionista che con la propria «logica isolante» ci racconta che in fondo i modelli di linguaggio fondazionali non sono altro che algoritmi, procedure che agiscono su matrici di numeri e operano inferenze di tipo statistico-probabilistico. E si potrebbe continuare raccontando che tali algoritmi sono istanze di un software che opera su un hardware la cui consistenza non è lontana da quella della pietra, se non fosse per l'ingegno umano che ha progettato e realizzato i circuiti che compongono i computer che ospitano le attuali intelligenze artificiali. Ancora, il riduzionista potrebbe affermare che sebbene gli algoritmi di IA generativa siano un mero modello funzionale anche mal costituito delle reti neurali neocorticali, non vi è alcuna traccia di «cervello» in sistemi tipo ChatGPT, Gemini, Claude e chi più ne ha più ne metta. Algoritmi, circuiti, energia elettrica e parole che si susseguono secondo una legge statistica appresa e che appaiono su uno schermo, pronte per stimolare le nostre retine e le annesse connessioni sinaptiche che prima o poi vanno disperdendosi in complessissime reti di neuroni che, formando il sistema nervoso, innervano l'intero nostro corpo e non solo il cervello. Basterebbe staccare la spina per spegnere tutto e fare sparire d'un solo colpo l'«Intelligenza Artificiale». Se da un lato tutto ciò ha un carattere di plausibilità è altrettanto plausibile che la probabilità che ciò avvenga sia bassa. Se allora ci manteniamo – per necessità di ragionamento – in quella metà campo di gioco dove le macchine continueranno ad essere migliorate sempre più velocemente – con incrementi più che esponenziali nelle prestazioni – non possiamo non considerare quell'elemento base che il riduzionista deve celare come si nasconde la polvere sotto al tappeto. Tale elemento essenziale è il funzionamento di tali sistemi di IA che ospitano modelli multimodali di tipo fondazionale (e.g., ChatGPT, Gemini, Claude, etc.) all'interno di una totalità specifica che considera anche l'interazione continuata con milioni di esseri umani-utenti. In altre parole, oggi non basta descrivere materialisticamente un sistema di IA come una istanza di un sistema non vivente. Non basta liquidare l'apparente «interazione» intelligente che esso ha con un essere umano in termini di algoritmi, calcoli, computazioni, inferenze logico-formali, stime statistico-probabilistiche. Un sistema di IA è un centro di forze – il cui supporto è sì materiale – che si costituisce come il più grande esperimento che l'umanità abbia mai concepito, atto a organizzare tutti quei segni che ci sono utili per tenere traccia dei nostri pensieri, produzioni, siano esse tecniche o artistiche. Un sistema di IA attualmente si nutre in forma continuata del risultato delle interazioni con milioni di utenti ed è candidato ad assumere la forma di un nuovo «livello semantico» che fornisce funzioni cognitive alla struttura della rete globale che usualmente chiamiamo Internet, la quale è tutt'altro che una struttura statica. La «foresta simbolica» – costruzioni, leggi, religioni, sistemi segnici, sistemi di scrittura, forme espressive, manufatti artistici, etc. – che sin dall'inizio della civiltà è andata costituendosi e che ci ha resi schiavi e illusi della nostra stessa intelligenza oggi mostra il suo lato dinamico all'interno di un tratto accelerazionale simile a quello inerente la putrefazione della famosa banana di Cattelan. In altre parole, se in epoche antiche i segni con cui abbiamo disseminato il mondo sembravano senza tempo e sempre validi – scimmiottando gli «immutabili» cui la sapienza greca si rifaceva in tema di verità universali – oggi quegli stessi segni mostrano la loro caducità, intercambiabilità, riorganizzabilità, duttilità, secondo schemi e criteri sì precostituiti, ma anch'essi sottoposti a scadenza e revisione. Ora c'è da comprendere che la costruzione di tali schemi non è più solo dominio dell'umano progettare, poiché anche il «progettare» stesso è materiale generabile dalla macchina, sì che da progettista l'uomo si appresta a diventare meta-progettista – ed è per tale motivo che sostengo che oggi siamo entrati nell'«era della meta-progettazione». In alcune mansioni siamo già al di là della progettazione come un tempo era conosciuta. Il caso vorrebbe – si fa per dire «caso» in quanto qui c'è un carattere di necessità – che proprio la mansione alla base della progettazione e della programmazione delle macchine ha subito per prima e nella maniera più pesante il cambiamento di paradigma che ci traghetta dalla progettazione alla meta-progettazione. Ma oggi siamo già oltre queste specificità.

Ma abbiamo iniziato col dire che le macchine dominano il dire, seppur per un certo grado. E quale dire è il massimamente imperscrutabile se non la poesia? La poesia secondo una definizione dell'Enciclopedia Treccani è presente in tutte le culture ben prima dell'invenzione della scrittura ed «è una forma di espressione che si fonda sulle dimensioni musicali del linguaggio – ritmi, accenti, sonorità – per trasmettere contenuti ed evocare suggestioni ed emozioni». Ma sappiamo che essa è anche «ben altro» rispetto alle definizioni tecnicistiche e forse troveremmo tante definizioni differenti quanti sono coloro che si misurano con la definizione di poesia (o tante definizioni quanti sono i poeti stessi). «Definizione» che già nell'atto di definirla la poesia la costringe a non oltrepassare, le impedisce di trascendere la parola-segno e approdare in quell'oltremondo abitato anzitempo dalle innumerevoli evocazioni poetiche.

«Il poeta è un fingitore. / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente» 

scrive Fernando Pessoa [1], forse per individuare quella distanza incolmabile tra il poeta stesso come io-autore e il componimento, che - mi piace pensare - è un aspetto meramente formale rispetto al sentimento puro. Ci sono poeti che ritengono che la poesia debba essere libera da schematismi e strutture mentre altri non ammettono prescindimenti sostenendo che schemi metrici, musicalità del verso, figure retoriche e un lavoro di lima sono fondamentali per una buona pratica poetica. Certo la tecnicità come nell'arte in generale non è condizione sufficiente poiché c'è «dell'altro». Giuseppe Ungaretti in suo saggio [2] ad esempio sostiene che: 

«Soltanto la poesia, l’ho imparato terribilmente, lo so, la poesia sola può recuperare l’uomo, persino quando ogni occhio s’accorge, per l’accumularsi delle disgrazie, che la natura domina la ragione e che l’uomo è molto meno regolato della propria opera che non sia alla mercé dell’Elemento». 

Da questa prospettiva, la poesia è un fatto squisitamente umano e qualsiasi tentativo di disumanizzare la poesia – facendone scrivere una all'IA – appare vano, dissonante, nonché sciocco. Ma tra qualche riga faremo questa sciocchezza: chiederemo alla versione GPT-4o di scrivere una poesia. Premettiamo solo, al fine di anticipare le critiche, che se ChatGPT è un «ladro di parole» poiché notoriamente è stato addestrato su ingenti quantità di teso prodotto da esseri umani (comprese poesie), non si conosce poeta che prima di scrivere una poesia non ne abbia letta o ascoltata una. Non esiste nessun artista che non abbia ricevuto in qualche mondo un influsso, una ispirazione, da un opera o da un pensiero preesistente. Da questa prospettiva, nel produrre un testo, l'operato di ChatGPT non è dissimile dall'operato umano.

Esperimento: ChatGPT scrive poesie

Prompt: «Dai il meglio di te scrivendo una poesia e mostrando padronanza stilistica, sintattica e nell'usare le figure retoriche. Il tema è: il nulla e l'abisso»

ChatGPT
Il Nulla e l'Abisso

Tra veli di silenzio, un'eco si dissolve,
un grido senza suono, che il vuoto assolve.
Non è luce né ombra, né vento né mare,
ma il peso d'un pensiero che non vuole parlare.

Il nulla danza, etereo, senza corpo né veste,
traccia spirali di buio su lande celeste.
Non ha forma né volto, né legge né nome,
eppur avvolge il cuore come un gelo di piume.

L'abisso, fratello, spalanca la sua bocca,
un vorace confine dove ogni speranza trabocca.
Lì, dove il tempo si piega in un cerchio finito,
ogni moto dell'essere è già svanito.

Il nulla e l'abisso sussurrano insieme:
"Chi sei, tu che tenti di darci un seme?
Un'anima è poca, un pensiero è un niente;
non sfidi l'eterno, ma il vuoto imminente."

Eppure la mente, ribelle, disegna sentieri,
costruisce dei ponti su abissi interi.
Una scintilla di vita, tremante, riluce,
contro l'eterno, si fa luce che induce.

Ma il nulla sorride, paziente e sicuro:
"Anche il sole finisce, anche il tempo è maturo.
Tu sfidi l'infinto, ma torni alla foce,
un istante di lotta contro l'onda feroce."

Così resta il silenzio, sovrano dell’ora,
lì dove il nulla e l’abisso intrecciano ancora.
Un gioco di ombre, di sogni perduti,
un ballo di enigmi, eterni e assoluti.

Prompt: «Ora spiegami come l'hai costruita»

ChatGPT
La poesia è stata costruita con attenzione ai seguenti elementi strutturali e stilistici:

1. Tema e Simbolismo

Tema centrale: il nulla e l'abisso, concetti filosofici che evocano il vuoto esistenziale e il limite dell'essere. Il nulla rappresenta l'assenza di tutto, mentre l'abisso è la profondità insondabile che attira e sgomenta.

Contrasti: vengono usati i contrasti per dare corpo al vuoto, come tra luce e buio, moto e immobilità, tempo e infinito. Questo serve a rendere tangibili concetti astratti.

2. Struttura e Forma

La poesia è composta in quartine per mantenere una forma regolare e un ritmo prevedibile, che contrasta con l’irregolarità del tema trattato.

Il metro non è rigidamente definito, ma c’è una predominanza di versi endecasillabi e settenari, che creano una musicalità ricercata ma naturale.

La rima è alternata e a tratti incrociata, conferendo un senso di armonia che sfida il caos rappresentato dal nulla.

3. Figure retoriche

Personificazione: il nulla e l'abisso sono trattati come entità viventi che parlano e agiscono ("Il nulla danza," "L'abisso, fratello, spalanca la sua bocca").

Metafore: "veli di silenzio," "spirali di buio," "gelo di piume" danno immagini concrete a concetti immateriali.

Similitudini: "come un gelo di piume" evoca un contrasto sensoriale che amplifica la percezione del nulla come qualcosa di intangibile ma presente.

Anastrofe e inversione sintattica: in frasi come "Non è luce né ombra, né vento né mare," la struttura rafforza il senso di assenza e negazione.

Antitesi: il nulla è "etereo" ma "avvolge il cuore," evidenziando il conflitto tra leggerezza e oppressione.

4. Progressione narrativa

La poesia segue un arco emotivo:

1. Introduzione: l'eco e il silenzio evocano l'idea del vuoto iniziale.

2. Ritratto del nulla e dell'abisso: vengono descritti attraverso immagini che ne sottolineano l’assenza di confini e leggi.

3. Sfida dell’essere umano: emerge un accenno di resistenza attraverso la mente, simbolo della volontà e del pensiero.

4. Conclusione: ritorna il dominio del nulla e dell'abisso, in una ciclicità che enfatizza l'ineluttabilità del loro potere.


5. Tonalità e Linguaggio
Tonalità alta: il linguaggio è elevato, con un lessico ricco e solenne per rispettare la profondità filosofica del tema.

Sintassi fluida: le frasi sono lunghe e ritmate, creando una musicalità che contrasta con l’irregolarità del concetto di nulla.

Ambiguità e universalità: volutamente non si dà una spiegazione definitiva di cosa siano il nulla e l’abisso, lasciando al lettore il compito di interpretarli.

6. Influenza filosofica
Echi di Nietzsche e Heidegger: il nulla richiama l'idea dell'assenza come condizione esistenziale, mentre l'abisso è un simbolo heideggeriano della profondità dell'essere.

Sfida umana: c’è un richiamo alla volontà di superare il vuoto (volontà di potenza nietzschiana), ma anche all’ineluttabilità del limite umano.

7. Effetti sonori
Uso di allitterazioni: "Lì, dove il tempo si piega in un cerchio finito," per creare effetti sonori che richiamano il movimento circolare dell’idea.

Assonanze: "Abisso" e "silenzio" hanno suoni aperti che richiamano il vuoto.

In sintesi, la poesia è un dialogo tra ordine e caos, tra il tentativo umano di dare un significato al vuoto e l’ineluttabilità della sua presenza. Ogni elemento stilistico e retorico è stato scelto per sottolineare la profondità del tema trattato.


Prompt: «Riusciresti a scrivere ora un sonetto mantenendo strettamente fede alla metrica?»

ChatGPT
Il Nulla e l'Abisso (Sonetto)

Nel vuoto oscuro nasce un’eco stanca,
si perde in spire d’aria senza suono,
è cenere di stelle, il vecchio dono
che avvolge il mondo e in sé l’anima manca.

Sull’orlo d’ombra, l’abisso già si franca,
muto risucchia il tempo in cupo trono;
non v’è risposta al passo che abbandono,
solo un silenzio eterno che si stanca.

Ma l’uomo osa il grido, un fuoco lieve,
e sfida il nulla, impone un’altra trama
dove il pensiero accende forma e neve.

Pur il mistero, eterno, si richiama:
nel gioco in cui la mente in alto eleve,
il vuoto attende e tutto si richiama.

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Struttura metrica
Schema metrico: ABBA ABBA CDC DCD, in piena osservanza dello schema del sonetto italiano.

Versi endecasillabi: Ogni verso ha rigorosamente 11 sillabe metriche, incluse sinalefi e cesure naturali.

Ritmo e armonia: L’uso delle rime alternate nel sestetto permette una chiusura musicale e riflessiva.

Tematica
Il sonetto mantiene il tema del nulla e dell’abisso, ma in forma più condensata. La struttura lirica consente una riflessione che oscilla tra l’inevitabilità del vuoto e il coraggio umano di affrontarlo, pur consapevole della sua irrilevanza cosmica.


Prompt:«Sapresti fare la divisione in sillabe della prima quartina?»

ChatGPT
Certamente! Ecco la divisione in sillabe metriche della prima quartina del sonetto:

Nel vuo-to os-cu-ro na-sce un’e-co stan-ca
(11 sillabe: sinalefe tra "nasce" e "un'eco")

Si per-de in spi-re d’a-ria sen-za suo-no
(11 sillabe: sinalefe tra "d'aria" e "senza")

È ce-ne-re di stel-le, il ve-cchio do-no
(11 sillabe: sinalefe tra "stelle," e "il")

Che av-vol-ge il mon-do e in sé l’a-ni-ma man-ca
(11 sillabe: sinalefe tra "e" e "in sé")

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Note sulla metrica

Sinalefi: Sono fondamentali per mantenere il verso entro le 11 sillabe. Ad esempio:

"nasce un'eco" conta come 4 sillabe, grazie alla fusione vocalica tra "nasce" e "un."

"stelle, il" conta come 3 sillabe, poiché "e" e "il" si uniscono in una sola emissione vocale.

Apostrofi: L'uso di "un'eco" aiuta a risparmiare una sillaba e a rispettare il conteggio.

Cesure naturali: Pur rispettando l’endecasillabo, le pause ritmiche offrono armonia alla lettura.

Se hai dubbi su un punto specifico, possiamo approfondirlo!


Prompt: «So che sei una intelligenza artificiale e che non hai sentimenti o opinioni personali ma rispondi sinceramente come ChatGPT: secondo te che cosa è la poesia?»

ChatGPT
La poesia è un modo unico di esprimere l'essenza delle cose, una forma di linguaggio che va oltre il semplice comunicare informazioni. È un tentativo di catturare ciò che spesso sfugge alla comprensione razionale: emozioni, sensazioni, idee profonde e complesse. Attraverso il ritmo, le immagini, e le parole scelte con cura, la poesia riesce a creare un legame intimo tra chi scrive e chi legge, uno spazio dove significati diversi possono convivere e risuonare in modi personali.

Non è solo un gioco estetico o formale, anche se la bellezza delle parole gioca un ruolo importante. È una finestra su ciò che non può essere detto direttamente, su ciò che spesso rimane invisibile o inesprimibile nella vita quotidiana. È un modo per esplorare il mistero della vita, per dare voce al silenzio, per rendere tangibile l’invisibile.

La poesia non risponde a tutte le domande, ma le pone in modo che sembrino nuove. Non serve necessariamente a risolvere, ma a sentire, a riflettere, a condividere. È un dialogo tra il mondo e l’interiorità, un ponte che collega ciò che è esterno a ciò che è dentro di noi. In questo senso, è una forma di conoscenza, non scientifica, ma umana, emozionale e intuitiva.

In fondo, la poesia è un invito a vedere il mondo con occhi diversi, a scoprire la profondità nelle cose semplici e a riconoscere la complessità in ciò che sembra ovvio. Non ha una definizione definitiva, perché cambia con chi la legge e con chi la scrive. È un’esperienza, più che un concetto: una manifestazione del desiderio umano di cercare e creare senso, anche laddove potrebbe non esserci.



Commento finale

Se per Pessoa il poeta è un fingitore allora ChatGPT è il re dei fingitori, in quanto ci viene addirittura a riferire che il componimento da lui scritto, date le tematiche trattate, è ispirato a Martin Heidegger! Il delirio macchinico infatti dice: «il nulla richiama l'idea dell'assenza come condizione esistenziale, mentre l'abisso è un simbolo heideggeriano della profondità dell'essere». La macchina ci mostra e ci dimostra di saper scrivere anche un sonetto padroneggiando contenuto e forma. Addirittura sostiene la metrica degli endecasillabi attraverso le sinalefi e mostra il conteggio delle sillabe, lo schema delle rime e tutte le figure retoriche adottate.
Lascio a ciascuno il senso ultimo di tutto ciò. Concludo col dire che sebbene ChatGPT non sia umano, c'è molto di umano in ChatGPT.


Post Scriptum

«È “impossibile” costruire l’intelligenza artificiale?» Emanuele Severino si domanderà in «Filosofia Futura» alla fine degli anni '80, rispondendo [3]:
«Anche su questo versante, dunque, non si presentano ostacoli che in linea di principio rendano “impossibile” alla scienza la costruzione di oggetti non solo indistinguibili da ciò che chiamiamo “il nostro prossimo” ma anche con prestazioni enormemente superiori. Non è “impossibile” che la scienza riesca a costruire oggetti con fattezze umane che vivano, scrivano poesie, preghino Dio e facciano filosofia come e meglio degli uomini. Per sapere che cosa è “impossibile” è infatti indispensabile sapere che cosa è “necessario”. E la nostra cultura ha dato un grande addio alla necessità.»
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[1] Fernando Pessoa, Il poeta è un fingitore. Duecento citazioni scelte da Antonio Tabucchi, Milano, Feltrinelli, 1988.
[2] Giuseppe Ungaretti, Ragioni di una poesia, in Vita d'un uomo. Saggi e interventi. (M. Diacono & L. Rebay, A cura di). Mondadori, 1997.
[3] Emanuele Severino, Filosofia Futura, Bompiani, 1989.



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L'immagine è una libera «ispirazione creativa» prodotta da ChatGPT stesso sulla base della poesia da lui redatta e riportata in questo articolo.


domenica 24 novembre 2024

La sincronicità e la visione unitaria di Jung e Pauli


La sincronicità è un concetto affascinante e complesso che emerge dal fruttuoso dialogo tra psicologia e fisica, articolato nelle opere di Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli. Entrambi, pur provenendo da discipline apparentemente lontane, hanno esplorato il terreno condiviso tra psiche e natura, proponendo una visione in cui il significato e gli archetipi fungono da legame tra questi due domini.

Il rapporto tra Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli ebbe inizio nel 1932, quando Pauli, in seguito a una profonda crisi personale causata dalla morte della madre e dal fallimento del suo matrimonio, si rivolse a Jung per iniziare un percorso di analisi. Questo incontro segnò l’inizio di un rapporto intellettuale e umano che si sarebbe sviluppato negli anni successivi, basato su una vivace corrispondenza e su un confronto costante.

Mentre Jung una volta allontanatosi dalle posizioni freudiane della psicoanalisi diventava il padre della psicologia analitica, Pauli era ritenuto un grande fisico teorico che aveva enunciato, tra le altre cose, il principio di esclusione, capace di giustificare la Tavola Periodica degli elementi, e l’esistenza del neutrino.

Nel corso della loro collaborazione, Jung e Pauli esplorarono temi che intrecciavano psicologia analitica e fisica quantistica. Pauli condivise con Jung oltre 400 sogni, che Jung analizzò, evidenziando la presenza di archetipi e simboli universali. Questi dialoghi contribuirono a sviluppare il concetto di «sincronicità», inteso come un principio di «nessi significativi acausali tra eventi psichici e fisici». Pauli, da parte sua, arricchì il dibattito con le sue intuizioni sulla complementarità e sull’influenza degli archetipi nella costruzione delle teorie scientifiche.

Nel 1952, la loro collaborazione culminò nella pubblicazione del volume «Naturerklärung und Psyche» («L'interpretazione della natura e della psiche») [1], che includeva un saggio di Jung sulla sincronicità e uno di Pauli sull’influenza delle immagini archetipiche nelle teorie scientifiche di Keplero. Questo lavoro rappresentò un tentativo innovativo di integrare scienza e psicologia, suggerendo una visione unitaria della realtà in cui psiche e materia si intrecciano.

La loro corrispondenza, proseguita fino al 1957, arricchì i rispettivi campi di studio e pose le basi per un dialogo interdisciplinare ancora oggi attuale. Il carteggio tra Jung e Pauli, pubblicato postumo in Atom and Archetype: The Pauli/Jung Letters, 1932-1958 [2], testimonia la profondità del loro confronto e il contributo congiunto alla comprensione del legame tra mente e realtà fisica.


Sincronicità 

Jung definisce la sincronicità come [3] «la risultante di due fattori: 1) un'immagine inconscia che si presenta direttamente (letteralmente) o indirettamente (simboleggiata o accennata alla coscienza come sogno, idea improvvisa, presentimento); 2) un dato di fatto obiettivo che coincide con questo contenuto». Tale principio rappresenta per Jung un’alternativa alla causalità, capace di spiegare nessi significativi tra eventi psichici ed eventi fisici che sfuggono alla spiegazione scientifica tradizionale.

La sincronicità, secondo Jung, si riferisce a degli avvenimenti dove succedono cose nella realtà esterna che sono in corrispondenza significativa con un’esperienza interiore. Per Jung le categorie di spazio e tempo sono relative e «sincronico» — termine ritenuto dallo psicologo «provvisorio» — va inteso non con come qualcosa che avviene nello stesso tempo, bensì «nello stesso senso». Jung precisa che [3] «Eventi sincronistici si basano sulla contemporaneità di due stati psichici diversi. Uno è lo stato normale, probabile (cioè sufficientemente spiegabile in senso causale), l'altro è lo stato non deducibile dal primo per via causale, ossia l'evento critico».

Pauli, che sappiamo essere uno dei protagonisti della fisica quantistica, si inserisce in questo discorso partendo da un’idea analoga: la realtà è composta da due dimensioni complementari, psichica e fisica, unite da un substrato archetipico. Egli scrive in «Psiche e natura» [1]: «Una linea di sviluppo verso una futura descrizione della natura che comprenda unitariamente physis e psiche, e che oggi sperimentiamo solo in una fase prescientifica». Per Pauli, gli archetipi non sono esclusivamente strumenti psicologici, ma strutture fondamentali che influenzano la scienza e i suoi concetti, come i principi della fisica quantistica. In una lettera a Markus Fierz datata novembre 1949 Pauli scrive [3]: «[…] la possibilità delle leggi della natura mi è sempre sembrata fondarsi sulla coincidenza archetipica delle nostre aspettative (psichiche) con un fenomeno naturale esteriore (fisico). Per l’organizzatore astratto, la distinzione 'fisico-psichico' non esiste affatto. A questo proposito, mi sembrerebbe che il 'pensiero scientifico' sarebbe soltanto un caso particolare tra possibilità più generali».

L’idea di complementarità, centrale in entrambi i pensatori, è un punto nodale del loro dialogo. Jung la applica al rapporto tra coscienza e inconscio, affermando nel suo scritto Sincronicità che «ogni osservazione di contenuti inconsci comporta una ripercussione essenzialmente indeterminabile della coscienza su questi stessi contenuti». Analogamente, Pauli, riflettendo sulla complementarità in fisica, sottolinea che essa «presenta una profonda analogia con i concetti di coscienza e inconscio in psicologia, in quanto ogni 'osservazione' di contenuti inconsci comporta una modifica reciproca tra osservatore e osservato». In entrambe le discipline, emerge l’impossibilità di una conoscenza isolata: la realtà si manifesta come intreccio di opposti che si influenzano a vicenda.

Nelle sue Tavistock Lectures del 1935 [5], Jung risponde a una domanda sul parallelismo psicofisico riferendo che «Il corpo e lo spirito sono due aspetti dell’essere umano, e ciò è tutto ciò che noi sappiamo. Per questa ragione preferisco dire che le due cose sopravvengono assieme in un modo misterioso restandone qui, perché non si può immaginare le due cose come una sola. Per il mio uso personale, ho concepito un principio che deve mostrare questo fatto di 'essere assieme', affermo che lo strano principio della sincronicità agisce nel mondo quando certe cose si producono in un modo più o meno simultaneo. comportandosi come se fossero la stessa cosa, pur non essendo tali dal nostro punto di vista».

Un aspetto particolarmente innovativo del pensiero di Pauli è la sua esplorazione dei simboli archetipici nella scienza. Egli osserva che alcuni concetti scientifici, come la struttura fine delle righe spettrali o la separazione degli isotopi, ricorrono nei sogni e nelle fantasie in modo archetipico, suggerendo una connessione tra il simbolismo inconscio e le teorie scientifiche. Egli scrive [1] «Mi pare inoltre che l’interpretazione puramente psicologica colga solo una metà della questione. L’altra metà consiste nel disvelare il fondamento archetipico dei concetti che di fatto si usano nella fisica attuale». Per Pauli, queste manifestazioni dell’inconscio non sono verità scientifiche, ma rappresentano un «secondo senso» che unisce psiche e materia, offrendo una prospettiva che integra il razionale con il simbolico.

Tra i molti, un esempio emblematico di sincronicità, citato da Jung, è il celebre episodio dello scarabeo d’oro [3]: una paziente racconta un sogno in cui riceve uno scarabeo d’oro, e nello stesso momento un coleottero (Cetonia aurata) batte contro la finestra dello studio. Questo evento, apparentemente casuale, assume un significato profondo nel contesto terapeutico, evidenziando la connessione tra il mondo interno e quello esterno. Similmente, Pauli ricorda esperienze oniriche in cui simboli fisici come la «frequenza» o la «separazione degli isotopi» assumono una valenza psicologica. Egli nota [1]: «Nel tradurre i messaggi dei sogni in un linguaggio neutro, si è dato maggior rilievo all’aspetto energetico del concetto di frequenza».

La sincronicità, come descritta da Jung, non si limita a fenomeni straordinari, ma sfida le fondamenta stesse del metodo scientifico tradizionale, basato su causalità e determinismo. Essa implica un nuovo paradigma, in cui il significato diventa il criterio fondamentale per comprendere i fenomeni. Pauli si allinea a questa visione, sostenendo che [1] «gli archetipi sono immagini fondamentali e primitive che si impongono fortemente, inconsciamente, ma oggettivamente». Per entrambi, l’archetipo è un principio unificante che collega psiche e natura, simbolo e materia. Tale intenso dialogo tra Jung e Pauli invita a ripensare il rapporto tra scienza e umanesimo. Mentre Jung estende la psicologia al di là del soggettivo, verso un ordine oggettivo governato dagli archetipi, Pauli esplora l’influenza della psiche sulle strutture scientifiche, mostrando come concetti apparentemente neutrali siano radicati nell’inconscio collettivo. Entrambi gli studiosi condividono l’obiettivo di superare la frammentazione della conoscenza, integrando l’indagine esterna della scienza naturale con una ricerca interiore.

In un’epoca in cui la scienza tende a separarsi sempre più dalla dimensione umana, il lavoro di Jung e Pauli ci ricorda che l’universo non è fatto solo di particelle, ma anche di significati. Come scrive Pauli [1]: «Solo una combinazione di entrambe le direzioni di ricerca può condurre a una piena comprensione». La collaborazione tra fisica e psicologia complessa rappresenta un modello di dialogo tra discipline, un invito a esplorare la realtà nella sua complessità, al di là delle divisioni tra soggetto e oggetto, materia e spirito.


L'incontro tra psiche e natura per Pauli

Al centro della riflessione di Pauli c’è l’idea che i principi fondamentali della fisica quantistica possano rispecchiare dinamiche profonde della psiche, suggerendo un legame tra mente e natura che supera la tradizionale separazione tra soggettivo e oggettivo.

Un elemento chiave che il fisico teorico analizza è il principio di complementarità, introdotto da Niels Bohr, che afferma come alcune proprietà fisiche, come posizione e quantità di moto, non possano essere determinate simultaneamente. Per Pauli, questo principio ha profonde analogie con il rapporto tra coscienza e inconscio. In psicologia, l’osservazione dei contenuti inconsci implica una modifica reciproca tra osservatore e osservato, una dinamica che rispecchia il comportamento osservato nella fisica quantistica, dove il processo di misurazione influenza inevitabilmente il sistema misurato. Questa interazione, secondo Pauli, riflette la natura relazionale sia della psiche che della materia. Egli osserva che [1]: «La complementarità in fisica presenta una profonda analogia con i concetti di coscienza e inconscio in psicologia, in quanto ogni 'osservazione' di contenuti inconsci comporta una ripercussione essenzialmente indeterminabile della coscienza su questi stessi contenuti».

Un’altra connessione che Pauli evidenzia riguarda la relazione tra energia e tempo, che nella fisica quantistica assume una forma complementare simile al dualismo tra eternità e temporalità nella psiche. Mentre l’energia è considerata indistruttibile, il suo rapporto con il tempo introduce un elemento di indeterminatezza che rende impossibile stabilire con precisione la sua origine o il suo destino. Pauli associa questa caratteristica alla natura archetipica dell’inconscio collettivo, che opera al di fuori del tempo lineare e si manifesta in modo simbolico nella psiche e nella materia. A tal proposito, Pauli riferisce [1]: «L’energia resta sì indistruttibile, ma con un procedimento di misura che consente di determinare lo svolgimento temporale di un fenomeno non si sa più quanta ne è entrata dall’esterno nel sistema osservato e quanta invece ne è uscita». Egli, in altre parole, associa questa relazione con l’idea che l’energia appartenga a un’esistenza atemporale, simile all’eternità simbolica dello psichico collettivo.

L'indeterminazione di Heisenberg e la non-località quantistica rappresentano per Pauli ulteriori punti di contatto con il mondo psichico. L'indeterminazione stabilisce limiti fondamentali alla conoscenza precisa di certe grandezze fisiche, suggerendo che la realtà non può essere ridotta a un semplice schema deterministico. Allo stesso modo, la non-località, osservata nei fenomeni di entanglement, dimostra come particelle distanti possano rimanere connesse senza un'interazione causale apparente. Pauli vede in queste caratteristiche una riflessione del principio di sincronicità, formulato insieme Jung che, come sappiamo, descrive nessi significativi tra eventi psichici ed eventi fisici non spiegabili attraverso la causalità tradizionale. Inoltre, è noto che la fisica quantistica postula che l’osservatore influenzi il sistema osservato, rendendo il processo di osservazione non neutrale. Pauli collega questo principio con l’idea che la psiche dell’osservatore interagisca con i contenuti inconsci, producendo effetti complementari [1]: «Ogni osservazione di contenuti inconsci comporta una modifica reciproca tra osservatore e osservato».

Pauli esplora anche il ruolo simbolico delle funzioni matematiche nella fisica moderna, come le funzioni d’onda, che non descrivono semplicemente fenomeni fisici, ma agiscono come simboli che unificano opposti apparentemente inconciliabili. Questa capacità simbolica, secondo Pauli, è parallela al ruolo degli archetipi nella psiche, che organizzano l’esperienza umana e fungono da ponte tra inconscio e coscienza. L’analogia tra psiche e materia, mediata dagli archetipi, si riflette nella capacità della fisica di costruire teorie che non solo descrivono il mondo, ma ne catturano anche il significato profondo. Egli afferma che «Le 'astratte' funzioni matematiche della fisica moderna fungono in questo caso da simboli che ricompongono il contrasto», interpretando questa ricomposizione come parallela alla «funzione simbolica» degli archetipi nella psiche. Per inciso, per Jung la funzione simbolica è la capacità della psiche di esprimere contenuti inconsci attraverso immagini, idee o simboli che trascendono il loro significato immediato. Questi simboli fungono da ponte tra l'inconscio e la coscienza, permettendo alla mente di integrare elementi psichici profondi e spesso inaccessibili in una forma comprensibile. Jung sottolinea che un simbolo autentico non è un segno convenzionale, ma un'immagine viva che racchiude un significato che va oltre ciò che può essere completamente definito o spiegato, rappresentando una realtà psichica più ampia e universale, spesso legata agli archetipi dell'inconscio collettivo.

Infine, Pauli si sofferma sull’equivalenza tra energia e massa, un principio fondamentale della relatività che vede come una manifestazione di complementarità tra materiale e immateriale. Egli collega questa dinamica alla concezione simbolica del "mana", una forza archetipica che attraversa le culture e che esprime l’unità tra spirito e materia. Attraverso questa lettura, la fisica quantistica non è semplicemente una descrizione matematica della realtà, ma un sistema simbolico che tenta una ricomposizione della frattura dovuta al dualismo tra mente e natura.


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[1] Jung, C. G., & Pauli, W. (1952). Naturerklärung und Psyche: mit 6 Kunstdrucktafeln und 3 Abb. im Text. Studien aus dem C.-G.-Jung-Institut, Zürich. In it Pauli, W. (2006). Psiche e natura, Adelphi

[2] Jung, C.G., Pauli, W. (2014). Atom and Archetype: The Pauli/Jung Letters, 1932-1958, Princeton University Press. In it. Jung, C.G., Pauli, W. (2022). Jung e Pauli. Il carteggio originale: l'incontro tra psiche e materia, Moretti & Vitali

[3] Jung, C.G. (1980). La sincronicità, Bollati Boringhieri

[4] Jung, C.G. (1975). C.G. Jung Letters, Volume 2: 1951-1961. A cura di Gerhard Adler e Aniela Jaffé. Princeton, NJ: Princeton University Press.

[5] Jung, C.G. (1968). Analytical Psychology: Its Theory and Practice (The Tavistock Lectures). New York: Pantheon Books


sabato 16 novembre 2024

Nota metodologica per la lettura de «La struttura originaria» di Emanuele Severino

 

La comprensione della «struttura originaria» [1] e dei suoi concetti fondamentali richiede un approccio che vada oltre le categorie tradizionali del pensiero occidentale, poiché tali categorie, definite da Emanuele Severino come radicate nel nichilismo, isolano le determinazioni, generando contraddizioni. In questo contesto, il pensiero originario si configura come un superamento dell’astrazione e dell’isolamento semantico, concepiti all’interno della «logica dialettica» e proponendo, quindi, un orizzonte in cui ogni determinazione è necessariamente connessa a una totalità di senso. In questa nota metodologica, cercheremo di delineare un percorso per avvicinarsi a tale struttura, ricostruendo i passaggi e le intuizioni principali soprattutto a carattere metodologico alla base della comprensione dell’originario.

 

La logica dialettica

 La logica dialettica rappresenta una delle costruzioni filosofiche più ambiziose e complesse nella storia del pensiero occidentale. Essa si fonda sull’idea che il significato non possa essere compreso come isolato, ma esista necessariamente in relazione al proprio opposto e all’intero semantico. Questa prospettiva non si limita a essere un metodo, ma si configura come una teoria semantica in cui ogni significato implica l’intero del campo semantico. In tal senso, il pensiero di Severino integra e riformula l’essenza del metodo dialettico hegeliano per giungere alla struttura originaria del pensiero con legami evidenti con una specifica forma di «olismo semantico».

La logica dialettica è stata discussa e impiegata da pensatori che spaziano da Platone a Hegel, trovando in quest’ultimo il suo sviluppo più sistematico. Hegel, nella sua Scienza della logica, articola la dialettica come il movimento necessario del pensiero attraverso la contraddizione, nel quale gli opposti non si escludono ma coesistono in una sintesi superiore. Questo metodo è stato successivamente reinterpretato, criticato e difeso da autori come Marx, Adorno, e, in un contesto più analitico, da Severino.

Nel pensiero di Severino, la dialettica non è semplicemente un movimento del pensiero, ma una struttura ontologica che afferma la relazione necessaria tra l’essente e il suo opposto. La logica dialettica di Severino si distingue nettamente dalla mera logica formale, ampliandone i confini senza negarne i principi.

La concezione hegeliana della logica dialettica e la prospettiva di Severino

Hegel afferma che la contraddizione non è un errore del pensiero, ma il motore del divenire: la realtà si manifesta attraverso il superamento (Aufhebung) delle opposizioni. La logica hegeliana si fonda sull’idea che ogni determinazione concreta (tesi) incontri un limite che ne produce il contrario (antitesi), il quale viene poi integrato in una sintesi.

Severino, pur riconoscendo il valore della dialettica hegeliana, la critica come una forma di pensiero che rimane radicata nel nichilismo, ovvero nella riduzione dell’essere al divenire. Egli propone una «riforma» della dialettica che non si limiti a inglobare gli opposti in un divenire, ma affermi la coimplicazione originaria degli opposti come eternamente presenti. In Severino, quindi, la dialettica non è una dinamica del superamento ma un’affermazione dell’inseparabilità originaria e necessaria degli opposti.

La dialettica e la logica formale: distinzione e integrazione

La logica dialettica si distingue dalla logica formale principalmente per il trattamento della contraddizione. La logica formale opera sull’assunto del principio di non contraddizione: «A non può essere non-A». Al contrario, la logica dialettica, in quanto teoria semantica, considera il contraddittorio come intrinseco all’essere stesso. Essa non nega il principio di non contraddizione, ma lo riconfigura all’interno di un contesto olistico dove ogni significato implica necessariamente il proprio opposto e l’intero.

Alcuni autori sostengono che la logica dialettica è un’estensione della logica formale. La logica dialettica non la rigetta, ma la ingloba e la supera, mostrando come il significato formale sia un’astrazione che presuppone il campo semantico più ampio della contraddizione. Questo approccio permette alla logica dialettica di includere le formalizzazioni classiche senza rimanere limitata ad esse, rivelandone al contempo i presupposti ontologici.

 

La meta-regola per il pensiero originario

Per affrontare la questione del giudizio originario, dell’apparire e della necessità, può essere utile estrarre per scopi didattici una meta-regola che sintetizza l’approccio richiesto:

Meta-regola M: «Considerare ogni affermazione come inseparabile dal campo (semantico) di verità in cui appare, riconoscendo che il predicato non aggiunge nulla di estraneo al soggetto ma lo illumina, mostrandone la Necessità intrinseca (ristabilire i nessi necessari)».

Questa regola si fonda sul riconoscimento che il giudizio originario è un’affermazione in cui si realizza la struttura originaria. In termini rigorosi, esso può essere formulato come: «Il pensiero è l’immediato», oppure, con maggiore precisione, «Tutto ciò che, nel modo che gli conviene, è immediatamente noto, è l’immediato»​​. Tale definizione pone al centro il rapporto inscindibile tra il soggetto e il predicato, intesi non come entità separate, ma come una sintesi in cui il significato si illumina nella sua necessità.

Il giudizio originario esprime l’immediatezza del pensiero e della presenza dell’essere. Come chiarito, questa immediatezza non è una condizione soggettiva o psicologica, ma l’apertura in cui il soggetto e il predicato si implicano reciprocamente. La struttura originaria è tale perché, nell’apparire del giudizio, la relazione tra soggetto e predicato non può essere astrattamente separata (ciò lo si analizzerà con maggiore precisione quando si tratterà il «dire originario»). Infatti, il predicato conviene al soggetto solo in quanto entrambi sono compresi nella totalità del campo semantico originario​​.

Questa regola non si limita a un’operazione analitica, ma funge da guida per pensare ogni determinazione come parte integrante della totalità del significato. La separazione astratta tra soggetto e predicato comporterebbe la negazione della loro identità strutturale, trasformando il significato in un’entità isolata e, pertanto, contraddittoria. Il pensiero dell’originario si oppone a tale isolamento, mostrando come ogni affermazione trovi fondamento nella relazione necessaria con il tutto.

Non è sufficiente considerare un concetto o un’affermazione in isolamento; essi devono essere visti nel loro legame necessario con il tutto. Come esplicitato nella struttura originaria, l’isolamento di una parte comporta una contraddizione, perché ciò che appare come distinto trova il proprio significato nella relazione con l’intero. Ad esempio, il concetto di una «lampada accesa» non può essere ridotto a «lampada» e «accensione» considerate separatamente, ma è inseparabile dalla relazione in cui l’essere accesa appartiene intrinsecamente alla lampada​.

Questa necessità si fonda su una visione ontologica, dove ogni apparire e ogni identità sono inseparabili dall’originario. Nella struttura originaria, l’apparire è necessariamente l’apparire di sé stesso, e ciò dissolve l’idea che possa esserci una relazione estrinseca tra ciò che appare e il suo fondamento. Tale comprensione permette di superare le contraddizioni implicite nell’isolamento delle determinazioni, riportando ogni affermazione alla concretezza del tutto​.

La meta-regola M, quindi, comporta alcuni principi fondamentali da utilizzare come metodo:

  1. Riconoscere l'unità ontologica del soggetto e del predicato: Ogni proposizione non deve essere trattata come un’aggiunta esterna di un predicato a un soggetto, ma come la manifestazione di un’identità originaria e necessaria. Il predicato non è altro che la manifestazione di ciò che il soggetto già è nella sua essenza più profonda.
  2. Rifiutare l'estraneità e l'arbitrarietà: Nulla può essere affermato di un soggetto che non ne esprima la struttura intrinseca. Evitare di trattare il pensiero come una costruzione esterna, ossia evitare di «importare» significati da fuori, perché ogni «importazione» disloca la verità nell’ambito del contingente, del possibile, e quindi del nichilistico.
  3. Procedere secondo la Necessità e non la contingenza: In ogni affermazione, cercare ciò che non può essere altrimenti, rifiutando interpretazioni che lasciano spazio alla possibilità che l’essere stesso possa essere nulla. Ogni significato deve essere cercato come espressione di una struttura dove la verità è assoluta e quindi non sottoposta al divenire o alla contraddizione.
  4. Pensare all’interno della «Struttura del Dire»: Il dire originario non è un «dire di» qualcosa da parte di un soggetto, ma è l’apparire stesso delle relazioni, delle cose e del loro significare. Così, ogni proposizione diventa espressione di una verità che è sempre stata e che non dipende dall’intelletto umano, ma lo precede (tali concetti saranno approfonditi nel seguito).

 

Isolamento semantico e contraddizione

Un punto centrale per comprendere la struttura originaria è riconoscere che ogni isolamento semantico, ovvero ogni tentativo di separare una determinazione dal contesto dell’originario, genera una contraddizione. Questo isolamento, che Severino definisce come il «concetto astratto dell’astratto», non implica semplicemente una limitazione del significato, ma conduce a una negazione implicita del principio stesso di non contraddizione. Pensare, ad esempio, l’identità come separata dal contesto in cui si manifesta equivale a privarla della necessità che la definisce. Se consideriamo «A è A» indipendentemente dalla sua relazione a ciò che non è A, ci ritroviamo a dover affermare, implicitamente, che A possa essere anche altro da sé: una contraddizione insostenibile sul piano logico e semantico.

Per chiarire la distinzione tra contraddizione dialettica e contraddizione normale, è utile introdurre esempi concreti. Una contraddizione normale, nel senso della logica formale, si verifica quando affermiamo simultaneamente che una proposizione è vera e falsa nello stesso contesto: ad esempio, dire che «Questa sedia è interamente rossa e interamente non rossa nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto» – qui citato nella forma aristotelica dove c’è l’aspetto temporale che è intrinsecamente nichilistico - viola il principio di non contraddizione e rappresenta un errore logico evidente. Questa contraddizione è considerata un problema da risolvere o eliminare per preservare la coerenza del sistema.

La contraddizione dialettica, invece, non si limita a essere un errore da evitare, ma diventa il punto di partenza per una comprensione più profonda del significato. Nel contesto della logica dialettica, la contraddizione emerge come una tensione necessaria che esprime la relazione inscindibile tra opposti. Ad esempio, la relazione tra identità e differenza: l’identità di una determinazione implica necessariamente la differenza rispetto a tutto ciò che non è quella determinazione. Negare questa relazione equivale a negare l’identità stessa, che può esistere solo all’interno di un contesto in cui coesistono identità e differenza. La contraddizione dialettica, dunque, non va eliminata ma compresa come una coimplicazione tra termini che sono apparentemente opposti ma in realtà inseparabili.

Per superare questa contraddizione, è necessario adottare un pensiero che rifiuti l’astrazione isolante e si fondi sulla concretezza. La concretezza, nel senso severiniano, non significa eliminare le determinazioni particolari, ma ricondurle al loro fondamento originario, ovvero alla totalità che ne garantisce il senso. Pensare concretamente significa riconoscere che ogni determinazione appare all’interno di una relazione complessiva con l’intero. Prendiamo l’esempio della relazione semantica fondamentale (RSF) definita da Francesco Berto come [2]: ogni significato è necessariamente in relazione al suo opposto e all’intero campo semantico. Pensare una determinazione, come «rosso», senza implicare il suo contrario, «non-rosso», e l’intero contesto delle determinazioni cromatiche, è concepire il «rosso» in maniera astratta, svuotandolo della sua consistenza semantica.

In questo senso, la «concretezza dell’astratto» non implica la cancellazione dell’astratto, ma il suo ritorno al contesto totalizzante che gli dà significato. Per esempio, il concetto di «giustizia» isolato dal contesto sociale, storico e relazionale in cui si sviluppa, diventa un’astrazione priva di senso pratico e teorico. Solo riconducendo «giustizia» al suo orizzonte complessivo – come relazione, tensione e mediazione tra opposti (ad esempio, tra diritto e morale, o tra individuo e collettività) – è possibile comprenderne la portata e la necessità. La concretezza è dunque il riconoscimento che ogni significato è radicato nella totalità dell’essere (e del significato), e che ogni tentativo di pensarlo isolatamente conduce alla contraddizione astratta e, in definitiva, al fraintendimento del reale.

 

Il dire originario e il superamento del nichilismo occidentale

Il concetto di dire originario costituisce il nucleo della riflessione di Emanuele Severino sulla struttura della Necessità e il superamento del nichilismo occidentale. Questo dire si distingue dal dire nichilistico o occidentale, che è radicato nell’isolamento delle determinazioni e nella separazione tra soggetto e predicato. Per comprendere appieno il dire originario, è fondamentale analizzare come esso superi la logica attributiva tradizionale, evidenziando la relazione originaria tra soggetto e predicato e mostrando come ogni predicazione sia radicata nella totalità del campo semantico.

Il dire originario e il dire nichilistico

Il dire originario è l’affermazione che ogni significato è parte integrante del tutto, e non può essere separato dal contesto della totalità semantica. Nel dire originario, il soggetto e il predicato non sono isolati l’uno dall’altro, ma sono in una relazione che si costituisce come identità originaria. Questo si oppone al dire nichilistico, tipico della tradizione occidentale, che tende a isolare i significati, trattandoli come enti autonomi. L’isolamento porta alla contraddizione intrinseca, poiché ogni significato è, per Necessità, sempre già in relazione con l’intero​​.

L’identità originaria: A ( = B) = B ( = A)

Un esempio paradigmatico del dire originario è l’affermazione (A = B) = (B = A). Questa equazione non si limita a indicare una relazione di uguaglianza tra due termini, ma esprime l’identità originaria tra il soggetto e il predicato. Ad esempio, dire che «questa lampada è accesa» implica che l’essere accesa appartiene intrinsecamente alla lampada, e non può essere pensato separatamente da essa. In questo senso, la relazione tra soggetto e predicato non è una semplice attribuzione, ma una relazione reciproca e necessaria, dove il predicato è già incluso nel significato del soggetto​​.

Esempio della lampada accesa: una relazione di relazione

Consideriamo l’esempio offerto da Severino: «Questa lampada è accesa». Qui, il soggetto («questa lampada») e il predicato («essere accesa») non possono essere considerati isolatamente. Se si tenta di separare il significato della lampada dal suo essere accesa, si produce una contraddizione, poiché la lampada senza il suo stato di essere accesa non è più la stessa lampada. Invece, nel dire originario, si afferma che la lampada è accesa significa che «l’essere accesa appartiene necessariamente a questa lampada accesa» e viceversa. Questa identità è espressa come (A = B) = (B = A), dove il significato del predicato («essere accesa») è inseparabile dal significato del soggetto («questa lampada»)​​.

La relazione originaria tra soggetto e predicato

Secondo Severino, il soggetto non può essere isolato dal predicato, poiché il loro legame è parte integrante della struttura dell’originario. Ogni predicazione, come «A è B», implica che il predicato (B) non è un’aggiunta esterna al soggetto (A), ma un momento del significato del soggetto. In altre parole, il campo semantico del soggetto include già il predicato, così che ogni affermazione esprime una totalità di senso. Isolare il soggetto dal predicato, come avviene nel dire nichilistico, equivale a negare la coerenza semantica dell’originario, generando aporie e contraddizioni​​.

Il predicato come incluso nel campo semantico del soggetto

Dire che il predicato è compreso nel campo semantico del soggetto significa che il predicato non è un’alterità assoluta rispetto al soggetto, ma è già parte del suo significato. Ad esempio, «questa lampada è accesa» non può essere compreso come una mera giustapposizione di «questa lampada» e «essere accesa». Piuttosto, il predicato «essere accesa» è il modo in cui la lampada si manifesta, ed è quindi incluso nel significato stesso di «questa lampada». Questa inclusione dissolve l’illusione dell’isolamento semantico, mostrando che ogni predicazione è una relazione originaria e necessaria​​.

Il dire originario, come descritto da Severino, è una testimonianza della Necessità e della totalità del significato. Esso supera il dire nichilistico, radicato nell’isolamento e nella separazione, mostrando che ogni affermazione è una sintesi necessaria in cui il soggetto e il predicato sono inseparabilmente connessi. Attraverso esempi concreti come quello della lampada accesa, Severino illustra come ogni significato sia sempre già parte di una relazione di relazione, che è il cuore della struttura originaria. Questa comprensione dissolve le aporie del pensiero tradizionale e apre la via a una visione integrale e necessaria della verità.

 

L’apparire come fondazione dell’apparire

Un esempio paradigmatico del pensiero dell’originario è il concetto di apparire (legato ne «La struttura originaria» al concetto di F-immediatezza, esposto più avanti). In «La struttura originaria», l’apparire non è mai un evento isolato, ma è sempre l’apparire di un apparire, una struttura che si fonda nella necessità. Pensare l’apparire come un fatto autonomo porterebbe a un regresso infinito, in cui ogni apparire dipende da un altro per il proprio fondamento. Al contrario, l’apparire, nella sua concretezza, include immediatamente la propria fondazione: ogni apparire è già l’apparire di sé stesso. Questo riconoscimento dissolve la contraddizione implicita nell’isolamento, mostrando come ogni apparire sia un momento di una totalità che si manifesta necessariamente.

Un esempio paradigmatico del pensiero dell’originario è il concetto di apparire. In «La struttura originaria», Severino mostra come l’apparire non possa essere inteso come un evento autonomo e isolato, bensì come una realtà costitutivamente articolata in tre momenti. Questi momenti sono: (1) l’apparire del contenuto specifico, (2) l’apparire dell’apparire stesso come struttura, e (3) l’apparire della totalità dei significati che si danno nell’apparire. Questa triplice articolazione è necessaria, poiché ogni momento rimanda agli altri senza possibilità di regressus.

La dimostrazione della necessità di questa struttura emerge dal fatto che, se si affermasse che l’apparire non appare, si cadrebbe in una contraddizione. Dire che «l’apparire non appare» equivale a dire che l’apparire è assente, ma questo stesso atto di negazione presuppone un apparire: il «non apparire» può essere pensato e pronunciato solo nell’orizzonte di un apparire. Negare l’apparire significa, dunque, presupporre la sua presenza, poiché l’atto stesso di negarlo appare. L’apparire è quindi innegabile: esso è il fondamento originario che rende possibile ogni significato, compreso il significato della negazione stessa [3].

La necessità della triplice struttura dell’apparire
Perché i momenti dell’apparire sono precisamente tre? La risposta risiede nella natura immediata e non mediata dell’apparire stesso. Non si dà apparire senza che vi sia un contenuto che appare; ma questo contenuto non può essere pensato come separato dall’atto stesso dell’apparire, che è l’apparire del contenuto. Inoltre, l’apparire di un contenuto specifico non può essere compreso senza l’orizzonte complessivo in cui esso si inscrive: l’apparire della totalità dei significati. Questi tre momenti non sono separabili: essi sono strutturalmente co-implicati e non possono ridursi a un’unità semplice senza negare la concretezza stessa dell’apparire.

Il significato del termine «coscienza» in Severino
In questo contesto, è importante chiarire che Severino utilizza il termine «coscienza» con un significato specifico, diverso da quello comune. Non è da intendersi come la semplice autoconsapevolezza soggettiva tipica del senso comune, ma come la manifestazione stessa dell’apparire strutturato. La «coscienza» è l’apparire del contenuto, dell’atto dell’apparire e dell’orizzonte totale in cui questo si colloca. Essa non è un fenomeno psicologico, ma la dimensione in cui l’esser sé dell’essente (e il suo non essere altro) si manifesta.

Superamento del regressus
Se si concepisse l’apparire come un evento isolato, che richieda un altro apparire per essere fondato, si cadrebbe in un regresso infinito. Questo regresso è superato dal riconoscimento che ogni apparire include immediatamente il proprio fondamento nella sua struttura: è l’apparire di sé stesso, in cui il contenuto, l’atto dell’apparire e la totalità dei significati si manifestano insieme e necessariamente. La triplice struttura non è un’ipotesi o un’interpretazione, ma la condizione di possibilità dell’apparire stesso.

 

La totalità del significato come fondamento

Un elemento essenziale della metodologia è il rapporto inscindibile tra le determinazioni particolari e la totalità del significato. Ogni determinazione – sia essa l’identità, l’apparire o l’essere stesso – trova la propria verità e consistenza non in sé, come se fosse autonoma e indipendente, ma nella relazione necessaria con il tutto. Questo principio, che Severino definisce come il nesso olistico del significato, afferma che ogni determinazione non è mai isolabile senza perdere il proprio senso. La totalità del significato, dunque, non è un semplice aggregato di parti, ma il fondamento trascendentale che dà senso e coerenza a ogni determinazione. Lascia «fuori» unicamente il nulla assoluto, che però non è un ente distinto o un'alterità reale, bensì la negazione stessa del senso: un non-essere che non può mai apparire come qualcosa di reale e significativo.

Il nulla, nel pensiero severiniano, non è un semplice vuoto o una mancanza, ma una contraddizione intrinseca al pensiero che tenta di affermarlo come qualcosa di determinato. Ogni posizione del nulla come «essente» è negata dal principio stesso del significato, che richiede una relazione al tutto. In tal senso, il nulla è ciò che emerge dal tentativo di pensare un significato come separato dall’intero, un’impresa che porta inevitabilmente all’isolamento semantico e alla contraddizione dialettica.

Un esempio concreto di questa struttura si trova nel concetto di identità come «identità di identità». In una prospettiva puramente astratta, si potrebbe pensare l’identità come un’affermazione statica e autoreferenziale: «A è A». Tuttavia, questa formulazione, se isolata dal contesto del tutto, come abbiamo visto nella «struttura originaria del dire» non è sostenibile. L’identità non può essere ridotta a un’autosufficienza, perché il suo essere identica a sé stessa dipende necessariamente dalla relazione al proprio opposto e al campo semantico complessivo. Questo significa che l’identità di un significato non è data soltanto dal suo rapporto con sé, ma anche dal suo essere diverso da ciò che non è, e dall’esser parte della totalità semantica che lo comprende. In simboli, ciò che Francesco Berto chiama relazione semantica fondamentale (RSF) mostra che «A è A» coimplica «non-A» (negazione infinita di A) e, più radicalmente, la totalità dell’intero.

Separare l’identità dalla totalità del significato creerebbe una contraddizione fondamentale: l’identità apparirebbe come un’entità isolata e priva di fondamento, ridotta a un puro astratto che si svuota del proprio significato. La concretezza dell’identità, invece, emerge nel momento in cui essa è pensata come necessaria relazione all’intero, ovvero come parte di un contesto in cui il suo essere identico a sé stesso coimplica il rapporto con ciò che è altro da sé.

Ad esempio, nella sfera delle determinazioni linguistiche, consideriamo il termine «rosso». La parola «rosso» non ha significato isolatamente, ma solo nella relazione con altre determinazioni, come i suoi contrari («non-rosso», «blu», «giallo») e il contesto semantico in cui è collocata. Pensare «rosso» come assoluto, svincolato dal sistema di relazioni cromatiche e percettive che lo definiscono, significa trasformarlo in un’astrazione vuota, priva di senso concreto.

Questo principio di totalità, affermato dalla dialettica severiniana, non è semplicemente un postulato metodologico, ma una struttura ontologica fondamentale. Ogni determinazione non è solo un momento della totalità, ma esiste esclusivamente perché in relazione necessaria con essa. La metodologia della struttura originaria, quindi, non si limita a descrivere le relazioni tra i significati, ma fonda ogni significato sulla totalità del campo semantico e ontologico in cui è incluso. Solo riconoscendo questo radicamento nella totalità si può comprendere la concretezza e il senso pieno di ogni determinazione.

 

Il concreto, l’astratto e i loro concetti nella struttura originaria

Nel pensiero di Emanuele Severino, i concetti di concreto, astratto, concetto astratto dell’astratto e concetto concreto dell’astratto sono strumenti essenziali per comprendere la struttura originaria. Essi si sviluppano come momenti necessari di una riflessione che supera le contraddizioni dell’isolamento semantico e riconduce ogni determinazione al suo legame intrinseco con l’originario. Di seguito analizzeremo il significato di questi termini e il loro uso, corredati da esempi specifici.

Il concreto è ciò che si manifesta nella totalità delle sue connessioni. Non è una determinazione isolata, ma un momento che appare nel contesto necessario della struttura originaria. Come affermato da Severino, il concreto non è semplicemente la somma delle parti, ma la relazione in cui le parti si implicano reciprocamente e si fondano nella totalità semantica​​.

L’astratto, invece, è una determinazione isolata, un elemento del concreto separato dalla sua connessione necessaria con il tutto. Questa separazione lo rende intrinsecamente contraddittorio, poiché un’astrazione assoluta non può esistere senza il concreto da cui è stata astratta. L’astratto non è negato in quanto tale, ma in quanto separato dall’originario​​.

Il concetto astratto dell’astratto rappresenta una contraddizione logica e ontologica. Esso afferma una determinazione come indipendente dalla struttura originaria, separandola dalla necessità che la connette al tutto. Per esempio, dire che «A è A» senza riconoscere la connessione necessaria di A al tutto significa isolarlo, il che porta a identificarlo, paradossalmente, con «non-A».

Il concetto concreto dell’astratto, invece, supera questa contraddizione. Esso riconosce che l’astratto è un momento del concreto, che non può essere compreso senza riferirlo alla totalità del significato. In questo senso, il concreto dell’astratto non elimina l’astrazione, ma la riporta al suo fondamento necessario. Per Severino, il concreto dell’astratto è il riconoscimento che l’apparente autonomia dell’astratto è sempre già compresa nella relazione con il tutto​​.

Un esempio

Immaginiamo una lampada accesa. Considerare la «lampada» e l’«essere accesa» come elementi separati implica un concetto astratto dell’astratto: si isolano due aspetti che, nella realtà, non esistono indipendentemente l’uno dall’altro. La lampada accesa, invece, è un esempio del concetto concreto dell’astratto: l’essere accesa è inseparabilmente legato alla lampada come sua determinazione concreta. Questo esempio mostra come il pensiero debba superare l’isolamento semantico per cogliere la totalità del significato​​.

Uso metodologico

La distinzione tra concreto e astratto, e tra i loro concetti, non è solo descrittiva, ma offre una metodologia per il pensiero:

  1. Riconoscere il legame necessario tra le determinazioni e il tutto: Ogni affermazione deve essere vista come parte di una totalità. Separare una determinazione dal contesto originario significa cadere in contraddizione.
  2. Superare il concetto astratto dell’astratto: Non è sufficiente analizzare le parti in isolamento; è necessario vederle nel loro rapporto essenziale con la totalità.
  3. Affermare il concreto dell’astratto: L’astratto non è negato, ma riconosciuto come momento del concreto. Questa prospettiva dissolve l’illusione dell’isolamento e restituisce ogni determinazione al suo fondamento originario.

In conclusione, il pensiero di Severino invita a una comprensione organica e necessaria del reale-concreto, dove ogni determinazione è vista come inseparabilmente connessa al tutto. Questo approccio non solo supera le contraddizioni dell’astrazione, ma offre una via per cogliere la struttura originaria nella sua pienezza.

 

È possibile, quindi, concepire il piano concreto dell’astratto?

La concezione dell'astratto in concreto è possibile solo se si supera l'isolamento astratto, cioè la separazione di una determinazione dalla sua connessione necessaria con l'originario. Il cosiddetto «concetto concreto dell'astratto» è esattamente questo: non si limita a concepire una determinazione astratta isolata (che è sempre contraddittoria), ma vede tale determinazione come necessariamente connessa all’intero, ossia alla struttura della totalità. In tal modo, l'astratto può essere posto in un contesto in cui trova il proprio significato concreto, perché appare non più isolato, ma radicato nella connessione necessaria all’originario​​.

Questa «concretezza dell’astratto» implica un metodo di pensiero che consiste nel riconoscere in ogni determinazione la necessità del suo riferimento al tutto e, quindi, il superamento della sua apparente indipendenza. Il metodo per rendere concreto l’astratto è dunque:

  1. Collegamento all’originario: Ogni determinazione astratta deve essere vista come parte di un sistema di significato in cui essa è necessariamente connessa al tutto, evitando così l'isolamento contraddittorio che si produce nel «concetto astratto dell'astratto».
  2. Inclusione dell’eccedenza semantica: Ogni determinazione deve essere interpretata non come un semplice «contenuto separato», ma come una parte di un significato eccedente che si estende oltre essa. Questo significa considerare l’astratto come costantemente riferito a un orizzonte di senso che lo include e lo fonda.
  3. Negazione della negazione: Il concetto astratto, per diventare concreto, deve superare la propria autocontraddizione. Questa negazione della negazione non è la semplice eliminazione del significato, ma il rivelarsi del concetto astratto come un momento che, riferendosi al concreto, trova la propria coerenza nella totalità del senso.

In pratica, lavorare sul «piano concreto dell’astratto» significa assumere l’astratto come parte di un’unità in cui il concreto e l’astratto non sono separati, ma si fondano reciprocamente, dissolvendo così ogni possibilità di isolamento o di contraddizione dialettica​​.

Esempio: La lampada accesa

Consideriamo l’esempio della lampada accesa. Se si tenta di pensare «la lampada» come indipendente dal suo stato di essere accesa, sappiamo che si cade nel concetto astratto dell’astratto. La lampada, senza il suo essere accesa (o spenta), non è più la lampada completa: perde la sua determinazione come tale. Questo isolamento conduce alla contraddizione, poiché «la lampada» isolata dallo stato di essere accesa diventa un concetto astratto e autocontraddittorio.

Nel concetto concreto dell’astratto, invece, «la lampada accesa» è considerata nella sua totalità, dove lo stato di essere accesa è compreso come un momento necessario del suo essere lampada. In questo modo, l’astratto («lampada») è ricondotto alla sua connessione con il concreto («essere accesa»), dissolvendo l’autocontraddizione​​.

Negazione della negazione

La transizione dal concetto astratto dell’astratto al concetto concreto dell’astratto si realizza attraverso la negazione della negazione. Nel caso della lampada, questo processo può essere compreso così:

  1. Prima negazione: La separazione della lampada dal suo essere accesa (isolamento astratto).
  2. Negazione della negazione: Il riconoscimento che l’isolamento è autocontraddittorio e che la lampada è ciò che è solo in relazione al suo stato di essere accesa.

Questa seconda negazione non elimina l’astratto («lampada») ma lo integra nella connessione concreta, restituendogli la coerenza semantica all’interno del tutto​​.

 

Definizioni e differenze tra «distinzione» e «isolamento» in Severino

Definizione di «distinzione»: La distinzione, nel pensiero di Severino, è un momento fondamentale della struttura originaria. Essa implica il riconoscimento della diversità all'interno della totalità, senza che questa diversità separi i termini distinti dalla loro appartenenza all'intero. La distinzione non rompe l'unità dell'originario, ma è il modo in cui l'intero si articola nei suoi molteplici significati. In questo senso, la distinzione appartiene al piano base della struttura originaria ed è cooriginaria all'apparire delle determinazioni dell'essere​​.

Definizione di «isolamento»: L'isolamento, al contrario, è il tentativo di separare una determinazione dal tutto, trattandola come autonoma e indipendente. Questo atto produce una rottura con la totalità semantica dell'originario, generando contraddizioni e aporie. L'isolamento, nel contesto severiniano, è l'origine del nichilismo occidentale, poiché considera gli enti come separati dalla necessità e dal tutto, riducendoli così a «niente».

Differenza tra distinzione e isolamento

La differenza principale tra distinzione e isolamento risiede nel loro rapporto con l'originario:

  1. Distinzione: È una modalità interna alla struttura dell'originario, che mantiene i termini distinti nella loro relazione necessaria con il tutto. Ad esempio, nella distinzione tra soggetto e predicato, entrambi sono riconosciuti come momenti dell'identità originaria, senza che questa venga negata​​.
  2. Isolamento: Implica una negazione del legame con l'intero. Una determinazione isolata diventa astratta e priva di fondamento, generando contraddizioni come la contraddizione C (che sarà trattata più avanti). Ad esempio, isolare un ente dal suo essere significa trattarlo come un niente, negando la sua connessione necessaria con il tutto​​.

Implicazioni metodologiche

La distinzione permette di articolare il significato senza rompere la totalità, mentre l'isolamento crea aporie che devono essere tolte riconducendo le determinazioni isolate al campo semantico dell'originario. Pertanto, in logica dialettica la comprensione del rapporto tra distinzione e isolamento è essenziale per superare le contraddizioni nichilistiche e accedere alla struttura originaria della verità.

 

La negazione della negazione e il concetto di fondamento

Un passaggio metodologico essenziale nel pensiero di Severino, come abbiamo visto, è il concetto di «negazione della negazione». Questo termine, spesso associato alla dialettica, assume un significato profondamente specifico nella struttura originaria: ogni negazione è necessariamente legata a ciò che nega. La negazione non è mai isolata o autosufficiente, ma si determina in relazione a ciò che afferma implicitamente attraverso il proprio atto di negare. Questo legame è ineludibile, poiché negare l’esistenza di qualcosa significa già presupporre l’apparire di un contesto in cui la negazione stessa ha senso. Da ciò emerge che il superamento della contraddizione avviene non attraverso un mero annullamento dialettico, ma nel riconoscimento che la negazione stessa è parte di una totalità più ampia che la include e la fonda.

Ad esempio, negare la presenza di una determinazione implica necessariamente il riconoscimento dell’intero campo semantico e fenomenologico in cui tale determinazione è collocata. Dire «non c’è X» significa già situare X all’interno di un orizzonte di significati in cui X è pensabile, sia pur come negato. In questo senso, ogni negazione attesta la presenza di ciò che si nega, non come realtà autonoma, ma come parte di una relazione strutturale. Il riconoscimento di questa relazione dissolve la contraddizione, mostrando che ogni negazione è già fondata nella necessità della totalità in cui si inscrive.

Il significato di «fondamento» in Severino
Alla luce di questo, il termine «fondamento» in Severino si definisce come ciò che si manifesta necessariamente come condizione di possibilità di ogni determinazione, relazione e negazione. Il fondamento non è qualcosa di ulteriore o separato rispetto alla struttura originaria, ma è l’apparire stesso nella sua totalità e necessità. Ogni determinazione dell’essere è fondata perché appartiene a un tutto che si manifesta originariamente come innegabile. Negare questo tutto, o isolarne una parte, conduce inevitabilmente a una contraddizione, poiché il negare stesso si fonda sull’apparire della totalità che rende possibile ogni significato.

Il ruolo della totalità nella negazione
Questo riconoscimento della totalità è ciò che consente di superare la contraddizione implicita in ogni negazione. Nel pensiero severiniano, ogni negazione implica l’affermazione di una struttura più ampia che include ciò che si nega e rende possibile l’atto stesso della negazione. La contraddizione non è quindi annullata o negata, ma trascesa attraverso il riconoscimento che il fondamento della negazione non è altro che la totalità dell’essere che si manifesta necessariamente.

Necessità del tutto
In Severino, la «negazione della negazione» non è un procedimento logico-astratto, ma un momento di testimonianza dell’eternità dell’essente. Ogni atto di negazione, lontano dall’essere un evento isolato, attesta la necessità del tutto in cui l’essente si manifesta e in cui la negazione stessa trova senso. Questo processo oltrepassa il nichilismo implicito nella negazione isolata, mostrando che la verità dell’essere non solo non può essere negata, ma è già sempre manifesta come condizione originaria e necessaria di ogni apparenza.

 

Immediatezza, Mediatezza, L-immediatezza e F-immediatezza nella struttura originaria

Nel quadro filosofico di Emanuele Severino, i concetti di immediatezza e mediatezza, declinati in particolare nelle forme della L-immediatezza e della F-immediatezza, costituiscono pilastri fondamentali per comprendere la struttura originaria della verità e dell’essere. Questa nota metodologica esplora tali concetti, il loro significato e i loro usi, con l'obiettivo di chiarire come si articolino nella riflessione severiniana.

L’immediatezza è definita come il carattere di ciò che si manifesta direttamente, senza la necessità di mediazione. Essa rappresenta una presenza immediata e completa, in cui il contenuto è dato come interamente presente e autosufficiente. La mediatezza, al contrario, implica un riferimento ad altro (un medio) per essere compresa o fondata; è il carattere di ciò che si dà tramite un processo relazionale o inferenziale​​.

La F-immediatezza è l’immediatezza fenomenologica, cioè l’affermazione diretta di un contenuto specifico nell’orizzonte del presente. Essa si presenta come la «presenza immediata» delle singole determinazioni ontiche, comprese come parti della totalità del F-immediato. È importante sottolineare che la F-immediatezza non è isolata, ma è inclusa immediatamente nella totalità dell’essere F-immediato, costituendo così una dimensione auto-fondante della verità​​.

La L-immediatezza, invece, si caratterizza per la sua dimensione logica. Essa rappresenta non solo la presenza immediata di un contenuto, ma l’affermazione dell’identità e dell’incontraddittorietà di quel contenuto. In termini concreti, la L-immediatezza non si limita a un’affermazione esistenziale, ma comprende la struttura formale che garantisce la coerenza logica del contenuto affermato​​.

Relazione tra L-immediatezza e F-immediatezza

Un elemento cruciale della riflessione severiniana è la relazione tra L-immediatezza e F-immediatezza. La F-immediatezza costituisce il fondamento fenomenologico della presenza, ma la sua validità si manifesta anche attraverso la L-immediatezza, che ne garantisce la coerenza logica. In altre parole, l’essere che è F-immediato deve essere anche L-immediato per non cadere in contraddizione. Questo rapporto evidenzia la complessità semantica dell’originario, dove ogni dimensione immediata non è mai separata dalla totalità che la comprende​​.

Un aspetto metodologico importante è il superamento dell’isolamento delle immediatezze. Quando la F-immediatezza è considerata in astratto, senza la connessione con la L-immediatezza, si genera un’aporetica che può portare a una regressione infinita. La soluzione proposta da Severino consiste nel riconoscere che la F-immediatezza è già inclusa nella L-immediatezza, dissolvendo così ogni apparente opposizione​​.

Un esempio

Consideriamo l’affermazione: «L’essere è immediatamente presente». Dal punto di vista della F-immediatezza, questa affermazione indica una presenza diretta e fenomenologica dell’essere. Tuttavia, affinché questa affermazione sia valida, deve anche essere garantita la sua incontraddittorietà, che è il dominio della L-immediatezza. Senza tale garanzia, l’affermazione fenomenologica rimarrebbe vulnerabile all’obiezione logica che negherebbe la sua coerenza. Questo esempio illustra come le due forme di immediatezza siano inseparabilmente connesse e necessarie per la fondazione della verità​​.

Uso metodologico

La comprensione dell’immediatezza e della mediatezza richiede un approccio che eviti l’isolamento astratto di queste dimensioni. In particolare:

  1. Integrare F-immediatezza e L-immediatezza: Riconoscere che ogni affermazione fenomenologica (F-immediatezza) deve includere la coerenza logica (L-immediatezza) per essere valida.
  2. Superare l’astrazione: Non considerare l’immediatezza come una presenza separata, ma come una manifestazione della totalità in cui essa è inclusa.
  3. Evitare il regressus in indefinitum: Considerare ogni immediatezza come auto-fondata nella totalità del significato, senza richiedere un fondamento esterno.

In conclusione, l’immediatezza e la mediatezza, nelle loro articolazioni di F-immediatezza e L-immediatezza, rappresentano un invito a comprendere la verità non come una serie di affermazioni isolate, ma come una totalità coesa e necessaria. Questo approccio, radicato nella struttura originaria, supera le contraddizioni del pensiero astratto e offre una visione integrale del reale.

Ancora sul mediato

Il mediato, metodologicamente, è cruciale per due ragioni principali. La prima è che esso impedisce di concepire l'immediatezza come un dato assoluto e indipendente. La seconda è che esso permette di comprendere come ogni significato particolare sia in relazione necessaria con il tutto. Per Severino, il mediato non è mai un semplice passaggio o strumento concettuale, ma è il luogo stesso dove il senso dell'essere si articola nella concretezza del dire.

Un esempio chiave offerto nella Struttura Originaria aiuta a chiarire questa dinamica. Supponiamo di considerare la relazione tra una totalità (A), una parte (B) e un intermediario, che qui possiamo chiamare «maggiore della parte» (M). In questa relazione:

  • A è la totalità, il tutto;
  • M è ciò che è maggiore della parte, un momento di significanza intermedio;
  • B è una parte del tutto.

Severino sottolinea che M conviene L-immediatamente ad A, cioè è un significato che appartiene necessariamente alla totalità. Tuttavia, B, in quanto parte, è un momento della significanza di M, e quindi si trova in una relazione mediata rispetto ad A. In questo senso, B appartiene necessariamente ad A, ma non in modo diretto: il suo rapporto con A è mediato da M. Senza B, tuttavia, M perderebbe la sua coerenza e non potrebbe più convenire ad A.

Questa relazione ci mostra come il mediato non sia mai separabile dall’immediatezza. Se il mediato (B) venisse isolato o negato, l’intera struttura della significanza collasserebbe. In altre parole, la mediazione non è un accidente o un espediente, ma un momento necessario per la coerenza logica della relazione tra totalità e parte.

Un passaggio fondamentale della Struttura Originaria recita: «La significanza di A non è posta se non è posto il significato B, poiché B è un momento semantico necessario di ciò che conviene L-immediatamente ad A». Questo significa che l'essere di una totalità non può essere compreso senza riconoscere i momenti mediati che partecipano al suo significato. La mediazione, quindi, è ciò che consente al tutto di manifestarsi nella sua concretezza, evitando che sia ridotto a un’astrazione formale.

Dal punto di vista metodologico, questo esempio ci invita a ripensare il rapporto tra il particolare e l’universale, tra l’ente e il tutto. L’occidente, per Severino, ha costruito la propria ontologia su una separazione nichilistica tra questi poli, isolando il mediato e relegandolo a un livello inferiore rispetto all’immediatezza. Ma questa separazione è fonte di aporie, poiché il senso del mediato è costitutivo del senso dell’immediato. Non è possibile concepire la totalità senza le sue parti, e non è possibile concepire una parte senza il contesto che la include e la definisce.

 

Il principio di non contraddizione classico
Nella formulazione aristotelica, il principio di non contraddizione (principium firmissimum) è espresso così: «È impossibile che lo stesso attributo appartenga e non appartenga contemporaneamente e sotto lo stesso rispetto alla medesima cosa». Questo principio, enunciato nella Metafisica di Aristotele, stabilisce che un ente non può essere e non essere nello stesso momento e sotto lo stesso aspetto. È il fondamento logico della metafisica occidentale, concepito per garantire la coerenza del pensiero e del discorso, evitando che ogni proposizione possa essere al contempo vera e falsa.

La critica severiniana al principio classico
Severino considera il principio di non contraddizione classico un’espressione del nichilismo occidentale. Per Aristotele, l’essere può passare al non-essere: un ente è, ma può anche non essere, a seconda delle condizioni temporali e circostanziali. Questo significa che l’essere è concepito come «esposto al nulla», come qualcosa che può smettere di essere (annullarsi) o che può provenire dal nulla (generarsi). In questa visione, il principio di non contraddizione classico presuppone l’accettazione di una relazione tra essere e nulla, ossia che l’essere sia definibile solo nella contrapposizione al non-essere. Questo, per Severino, è il cuore del nichilismo: concepire l’essere come qualcosa di non necessario, di contingente, che può non essere.

Dice Severino: 

Risiede nel significato stesso dell’essere che l’essere abbia ad essere, sì che il principio di non contraddizione non esprime semplicemente l’identità dell’essenza con se medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza e dell’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza).

— Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 517  

 E ancora:
Il discorso aristotelico […] ponendo che quando l’essere è, è, e quando non è, non è, dice dunque che quando l’essere è il nulla, allora è nulla; e non si accorge che il vero pericolo dal quale ci si deve guardare non è l’affermazione che, quando l’essere è nulla, sia essere (e, quando è essere, sia nulla), ma è l’acconsentimento che l’essere sia nulla, cioè l’acconsentimento che si dia un tempo in cui l’essere non è il nulla (quando è) e un tempo in cui l’essere è nulla (quando non è), cioè l’acconsentimento che l’essere sia nel tempo. In questo modo il “principio di non contraddizione” diventa la forma peggiore di contraddizione: proprio perché la contraddizione viene nascosta nella formula stessa con la quale ci si propone di evitarla e di bandirla dall’essere.
— Severino, Ritornare a Parmenide, in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 22

Il principio di non contraddizione non nichilistico e la L-immediatezza
In contrapposizione, Severino propone un principio di non contraddizione non nichilistico, radicato nella L-immediatezza (il principio è Immediatezza Logica). Questo principio afferma che l’essere è irriducibile al nulla e che il nulla è radicalmente escluso dall’essere. La L-immediatezza è la manifestazione immediata e originaria dell’identità dell’essente con sé stesso: un ente è sé stesso e non può essere altro da sé (ciò vale L-immediatamente), non perché lo impone una regola logica esterna, ma perché la struttura originaria dell’essere si manifesta necessariamente così.

Definizione metodologica del principio di non contraddizione non nichilistico
Il principio di non contraddizione non nichilistico può essere formulato così: «È impossibile che l’essente sia diverso da sé stesso, poiché l’essente è immediatamente sé stesso e non altro». Questo principio non presuppone la possibilità che l’essente passi al nulla (o che il nulla si faccia essere), ma afferma che l’identità dell’essente con sé stesso è eterna e innegabile. La contraddizione non può sussistere non perché vietata da una legge logica astratta, ma perché essa implica necessariamente la negazione dell’identità dell’essente con sé stesso, che è innegabile.

L’immediatezza come fondamento della non contraddizione
La L-immediatezza testimonia l’impossibilità che l’essere non sia, in quanto il non-essere è privo di consistenza e non può in alcun modo apparire. Ogni contraddizione, in ultima analisi, è dissolta nella necessità dell’essere, che è l’unica realtà innegabile. Questo principio di non contraddizione non nichilistico non dipende dalla relazione tra essere e nulla, ma si radica nella necessità eterna

 

Sull’aporia del nulla

L’aporia del nulla, come intesa nel pensiero severiniano, sorge dalla tensione tra il tentativo di pensare il nulla come determinato e la sua intrinseca impossibilità di apparire. Il nulla, se pensato come qualcosa, diventa una determinazione positiva, contraddicendo la sua stessa definizione di non-essere. Questo paradosso implica che il nulla non può mai essere oggetto di un’esperienza o di un significato positivo senza trasformarsi in qualcosa di altro rispetto a sé. La questione, quindi, è come il pensiero possa riferirsi al nulla senza cadere in questa contraddizione.

Il metodo severiniano per aggirare l’aporia del nulla

Severino affronta l’aporia del nulla distinguendo diversi livelli semantici e ontologici del significato del nulla:

  • Il positivo significare del nulla: Severino riconosce che, nel linguaggio e nel pensiero, si può parlare del nulla, ma questa operazione non implica che il nulla venga pensato come qualcosa di reale o determinato (di esistente in sé). Dire «nulla» è un atto linguistico che non equivale a porre un contenuto determinato, ma segnala l’assenza di significato. Il nulla, in questo senso, può essere pensato solo come «insignificanza» (il nulla significa l’insignificanza).
  • Il nulla assoluto (Nihil absolutum): Per Severino, il nulla assoluto è la negazione radicale di ogni essere e di ogni significato. Non è semplicemente l’opposto o il contrario di qualcosa, ma il totale escludersi dalla sfera del significato e dell’essere. In quanto tale, il nulla assoluto non può apparire, perché ogni apparenza implica una determinazione che lo negherebbe come nulla.
  • Il significare del nulla come insignificanza: Quando si tenta di significare il nulla, ciò che appare non è il nulla in sé, ma la sua insignificanza. Il nulla non è un oggetto che si possa cogliere o descrivere, bensì la totale assenza di determinazioni e relazioni. Parlare del nulla significa, paradossalmente, farlo rientrare nel sistema del significato, svuotandolo della sua essenza di non-essere, inteso come insignificanza.
  • Il nulla assoluto in relazione alla totalità del significato: Nel contesto della totalità del significato, il nulla assoluto non ha luogo. La totalità del significato è per definizione il campo completo di tutto ciò che è significante e determinabile. Poiché il nulla assoluto è l’assenza di significato, esso non appartiene alla totalità, ma ne rappresenta un limite esterno puramente concettuale (orizzonte). Questo limite non può essere pensato senza trasformarsi in una relazione interna al sistema del significato.

Il rapporto tra nulla e contraddizione

Severino collega il nulla alla contraddizione attraverso il concetto di isolamento semantico. Tentare di pensare il nulla come separato dalla totalità del significato porta a una contraddizione, poiché il nulla, se separato, viene pensato come determinato. La contraddizione dialettica emerge nel momento in cui si attribuisce al nulla una qualche forma di identità, trasformandolo in un ente.

La logica dialettica severiniana non elimina il nulla, ma lo riconosce come un momento necessario nella struttura del significato. Il nulla non è un’entità autonoma, ma un’espressione della contraddizione insita nel pensare qualcosa come isolato dal tutto. In questo senso, il nulla è un’apparenza contraddittoria che si dissolve nel momento in cui viene ricondotta alla totalità del significato.

 

Contraddirsi, Contraddizione e Dialettica del Nulla

Nel pensiero di Emanuele Severino, il rapporto tra contraddirsi e contraddizione rappresenta un nodo fondamentale per comprendere la struttura originaria e la sua relazione con il nichilismo. Mentre il «contraddirsi» descrive una condizione fenomenologica e contingente, la «contraddizione» è intesa come impossibilità assoluta e necessaria. Questo dualismo si colloca al centro della riflessione severiniana sul nulla, che, nella sua essenza, è una contraddizione autocontraddittoria.

Contraddirsi

Il concetto di «contraddirsi» implica l’atto di affermare e negare la stessa cosa. Nel «contraddirsi» il dire è separabile dal contenuto dell’affermazione, e ciò che si pone può essere negato senza una negazione intrinseca dell’atto del dire stesso. Questo fenomeno appartiene al dominio della fenomenologia discorsiva e della contraddizione formale, dove le posizioni si confrontano senza implicare necessariamente l’impossibilità assoluta del loro essere​​.

Contraddizione

La contraddizione, invece, è il luogo dell’impossibilità assoluta. Quando un contenuto è in contraddizione, significa che esso nega sé stesso nella sua essenza, e dunque non può esistere. Per Severino, la contraddizione non si limita a una negazione discorsiva, ma è il «collasso ontologico» di un contenuto che pretende di essere ciò che non può essere. Per esempio, il nulla, inteso come assoluta negazione dell’essere, è una contraddizione: per negarsi come nulla, esso deve apparire e quindi «essere», dissolvendo così la propria pretesa di assoluta negatività​​.

La Dialettica del Nulla

Il nulla, come assoluta negazione dell’essere, è un concetto che incarna l’autocontraddizione. Per Severino, il nulla può essere compreso solo come un significato che si autocontraddice: esso non è, perché, nel momento stesso in cui è pensato o affermato, è già incluso nella totalità del significato dell’essere. Questo significa che la contraddizione del nulla non è semplicemente un errore logico, ma una necessità strutturale che conferma l’impossibilità di negare il significato dell’essere (essere non significa nulla)​​.

Relazione tra Contraddirsi, Contraddizione e il Progetto del Nichilismo

La distinzione tra «contraddirsi» e «contraddizione» ha implicazioni profonde per la comprensione del nichilismo occidentale. Il nichilismo, secondo Severino, si fonda sull’illusione che il nulla possa esistere come negazione assoluta dell’essere. Tuttavia, questa illusione è essenzialmente un «contraddirsi», poiché l’atto di affermare il nulla come reale implica già l’essere. La contraddizione del nulla mostra che il nichilismo non può sostenersi senza ricorrere a una struttura dell’essere che lo renda pensabile.

Uso Metodologico

  1. Distinguere contraddirsi da contraddizione: È fondamentale separare il livello fenomenologico (contraddirsi) da quello ontologico (contraddizione). Mentre il primo può essere corretto discorsivamente, il secondo è un’impossibilità assoluta che dissolve il contenuto stesso.
  2. Integrare il concetto di nulla nella totalità dell’essere: Il nulla deve essere pensato non come un’entità separata, ma come un momento autocontraddittorio che testimonia la totalità del significato dell’essere.
  3. Superare il nichilismo come contraddirsi: La comprensione del nulla come contraddizione mostra che il pensiero nichilistico è già fondato sull’essere, dissolvendo così l’illusione di una negazione assoluta.

In conclusione, la distinzione tra contraddirsi e contraddizione offre una chiave per comprendere la struttura originaria della verità e il superamento del nichilismo. La contraddizione è l’impossibilità stessa del nulla, e la sua autocontraddittorietà conferma che ogni significato, anche il più negativo, è già incluso nell’apparire della totalità. Questo approccio permette di dissolvere l’apparente dualismo tra essere e nulla, rivelando la necessità dell’essere come fondamento originario.

 

Che cosa è una autocontraddizione

Nel pensiero di Emanuele Severino, l’autocontraddizione è il fenomeno per cui un contenuto o una posizione, per essere affermato, deve contemporaneamente negare sé stesso. L’autocontraddittorietà si verifica quando un significato, una proposizione o una determinazione è tale che la sua stessa affermazione implica la sua negazione, e quindi diventa impossibile. A differenza della contraddizione ordinaria, che coinvolge due elementi separati, l’autocontraddizione è un contraddirsi intrinseco di un unico termine, che si dissolve nel momento in cui è posto​​.

Esempio di autocontraddizione

Un esempio classico di autocontraddizione riguarda il significato del «nulla». Come sappiamo, dire «il nulla è» implica che il nulla abbia una qualche forma di esistenza, ma ciò nega la sua stessa definizione, che consiste nell’assenza totale di essere. Per Severino, questa affermazione è un'autocontraddizione perché il nulla, nel momento in cui è pensato o affermato, si trasforma in un ente e quindi cessa di essere nulla​​.

Un ulteriore esempio analitico è offerto dalla negazione della presenza immediata: affermare che «la presenza immediata non è» implica comunque l’affermazione della presenza immediata come negazione. Ciò significa che per negare la presenza immediata, la presenza deve essere già posta, generando un’autocontraddizione intrinseca​.

Implicazioni metodologiche

  1. L’autocontraddizione è impossibilità: Essa non può essere risolta o «sopportata» come una semplice contraddizione logica; la sua affermazione implica la sua negazione totale.
  2. L’autocontraddizione svela la necessità dell’essere: Nel caso del nulla, l’impossibilità di pensarlo senza trasformarlo in un essere testimonia la necessità dell’essere come fondamento di ogni significato.
  3. Uso critico: L’analisi dell’autocontraddizione permette di individuare le incoerenze profonde in progetti o affermazioni che pretendono di isolare un significato dalla totalità del senso.

Severino mostra come l’autocontraddittorietà non sia solo un fenomeno logico, ma un elemento che testimonia la struttura necessaria dell’originario, dissolvendo le pretese nichilistiche di negazione assoluta del senso​.

 

Il significato di «toglimento» e la locuzione «appare come tolto»

Il concetto di «toglimento» gioca un ruolo cruciale nella filosofia di Emanuele Severino, legandosi strettamente alla comprensione dell’originario e alla struttura della necessità. La sua origine concettuale risiede nell'esigenza di dissolvere le contraddizioni che sorgono dall’isolamento delle determinazioni, restituendole alla loro appartenenza necessaria al tutto. Questa nota metodologica esplora il significato di «toglimento», l’uso della locuzione «appare come tolto», e la funzione metodologica di questi concetti nella comprensione dell’originario.

Che cosa significa «toglimento»?

Il «toglimento» non implica semplicemente una negazione o una eliminazione, ma è un processo di integrazione nella totalità del significato. Come spiega Severino, il toglimento è «il riconoscimento che la contraddizione deve essere tolta», un atto che dissolve la problematicità derivante dall’isolamento delle determinazioni e ne ripristina la coerenza nella struttura originaria​.

Per esempio, nel contesto dell'originario, il toglimento della negazione di una determinazione non è un atto arbitrario, ma è imposto dalla necessità che ogni determinazione sia già compresa nella totalità. L'essere di qualcosa è affermato non perché la sua negazione venga semplicemente rimossa, ma perché la sua negazione si rivela incompatibile con la sua immediata appartenenza alla totalità del senso​.

La locuzione «appare come tolto»

Quando Severino utilizza l’espressione «appare come tolto», si riferisce al fatto che un elemento, pur non essendo affermato esplicitamente, è già incluso nella struttura del significato come negato. Questo concetto si lega alla nozione di immediatezza e mediazione: il «tolto» non è annullato nel senso nichilistico, ma appare come incluso nel tutto, dove ogni negazione è già una parte della sintesi originaria.

Ad esempio, la contraddizione appare come «tolta» nel momento in cui si riconosce che essa non è più isolata, ma è ricondotta alla necessità del tutto. Questo implica che l’atto del toglimento non è un processo temporale o pratico, ma una struttura intrinseca al manifestarsi dell’originario​​.

Funzione metodologica nella comprensione dell’originario

La funzione metodologica del «toglimento» è fondamentale per la comprensione della struttura originaria. Esso consente di dissolvere le aporie e le contraddizioni apparenti, mostrando che esse sorgono solo dall’isolamento delle determinazioni. In particolare:

  1. Ricondurre le contraddizioni al tutto: Il toglimento rivela che le contraddizioni non sono assolute, ma dipendono da un errato isolamento di una parte rispetto alla totalità. La contraddizione è «tolta» quando si riconosce che ogni determinazione è già inclusa nel senso complessivo dell’originario.
  2. Garantire la coerenza della struttura originaria: Il toglimento assicura che ogni negazione o problematicità sia integrata nella sintesi dell’originario, evitando che si generi un regresso infinito o una frattura nella totalità.
  3. Dissolvere la separazione tra essere e nulla: Nel toglimento si evidenzia che il nulla, inteso come pura negazione, è autocontraddittorio e non può esistere al di fuori della totalità. Ogni «nulla» è già incluso come momento del tutto, apparendo come tolto nel riconoscimento della totalità e della necessità dell’essere​​.

Un esempio

Consideriamo il concetto di negazione dell’essere. Affermare che «l’essere non è» implica già che l’essere si presenti come tolto («non è» coincide con «essere non» e, infine, con «essere con»), poiché la negazione dell’essere presuppone l’affermazione della sua presenza nel campo del significato. In questo senso, il toglimento della negazione dell’essere non è un processo che aggiunge qualcosa, ma è il riconoscimento che l’essere è per sé noto e non può essere contraddetto senza generare autocontraddizione​.

In conclusione, il «toglimento» e il suo manifestarsi come «appare come tolto» rappresentano strumenti concettuali centrali per comprendere l’originario nella sua relazione alla totalità. Essi evidenziano come ogni determinazione, anche nella sua negazione, sia necessariamente integrata nella struttura dell’essere, dissolvendo ogni separazione nichilistica tra essere e nulla. Questa prospettiva non solo chiarisce la coerenza della struttura originaria, ma offre anche un metodo per affrontare le aporie del pensiero tradizionale.

 

Confronto tra il pensiero di Hegel e Severino

Il metodo dialettico hegeliano

Hegel sviluppa il metodo dialettico come il cuore della sua filosofia, una logica del movimento e della trasformazione. Al centro di questo metodo vi è l'idea che la realtà sia intrinsecamente dinamica e che il pensiero, nel suo procedere, non sia mai statico ma sempre orientato a superare (aufheben) le contraddizioni che esso stesso incontra.

  1. Struttura triadica del movimento dialettico:
    • Tesi: un’affermazione iniziale che pone una determinazione.
    • Antitesi: l’opposizione o negazione che emerge come conseguenza interna alla tesi.
    • Sintesi: il superamento della contraddizione tra tesi e antitesi, che conserva e supera entrambi (aufheben), inaugurando un nuovo livello di sviluppo.

Questo processo non è solo un metodo logico, ma descrive il movimento stesso della realtà. Per Hegel, la logica non è separabile dall’ontologia; il pensiero e l’essere sono uniti nel movimento dialettico. Ogni opposizione è dunque momento necessario del reale, e il metodo dialettico mira a mostrare come la contraddizione sia risolta in un’unità più alta.

  1. Contraddizione come motore del divenire:
    • Hegel considera la contraddizione non un errore da eliminare, ma il motore del divenire. La realtà si evolve proprio attraverso il manifestarsi e il superarsi delle contraddizioni. Ad esempio, l’essere puro (tesi) implica il nulla (antitesi), e la loro sintesi produce il divenire.
  2. Unità di metodo e contenuto:
    • Per Hegel, metodo e contenuto sono inscindibili. La dialettica non è un semplice strumento, ma esprime la struttura interna del reale. Ogni categoria logica rappresenta una fase dello sviluppo dell’Idea, che è insieme logica, natura e spirito.

Differenze fondamentali: Severino e la critica al metodo hegeliano

Sebbene Severino riconosca il valore del metodo dialettico hegeliano come uno dei tentativi più radicali nella storia del pensiero occidentale, la sua filosofia si colloca in una posizione decisamente critica rispetto alla concezione hegeliana della dialettica. Le differenze possono essere articolate su più livelli:

  1. Divenire e nichilismo:
    • Per Severino, il pensiero hegeliano, nonostante il suo apparente rigore, è ancora intrappolato nella prospettiva nichilistica dell’Occidente. Hegel accetta il divenire come realtà fondamentale, ma per Severino il divenire è già un errore: è l’apparire di un fraintendimento radicale dell’essere. Pensare che qualcosa possa divenire altro da sé significa, per Severino, accettare implicitamente il nulla come parte integrante della realtà (identificazione di essere e nulla), cosa che per lui è logicamente e ontologicamente insostenibile.
  2. Contraddizione ontologica vs. contraddizione semantica:
    • Per Hegel, la contraddizione è il cuore del reale, un momento necessario del suo sviluppo. Severino rifiuta questa posizione, infatti per il filosofo bresciano la contraddizione ontologica (ossia che un ente possa essere e non essere) è impossibile. Ciò che Hegel considera una contraddizione reale è per Severino un errore semantico, generato dall’isolamento astratto delle determinazioni dal contesto originario della totalità del significato.
  3. Struttura originaria e apparenza dell’intero:
    • Severino riformula il concetto di totalità. La sua struttura originaria non è un processo dialettico di superamento delle contraddizioni, ma l’apparire immediato e necessario dell’intero. Ogni determinazione non appare come separata o in divenire, ma come eternamente connessa al tutto. In Severino, la totalità è ciò che include ogni significato e ogni opposizione in una relazione necessaria, dove nulla viene tolto o superato.
  4. Critica al movimento dell’aufheben:
    • L’idea hegeliana di aufheben (togliere-conservare-superare) implica un divenire incessante in cui ogni determinazione è destinata a essere superata in una sintesi superiore. Per Severino, questo movimento è un fraintendimento dell’eternità dell’essere: nulla diviene, tutto è già eternamente ciò che è. Il movimento dialettico, quindi, non può spiegare l’essere, perché presuppone un divenire che per Severino è una contraddizione (per Severino la contraddizione è originariamente tolta).

Punti di contatto e differenze metodologiche

Punti di contatto:

  • Entrambi i pensatori rifiutano la staticità dell’intelletto astratto, che isola le determinazioni senza comprenderne la relazione necessaria.
  • Entrambi riconoscono l’importanza della totalità come chiave per comprendere il significato delle determinazioni particolari.
  • La logica dialettica è, per entrambi, più che uno strumento. Essa è il modo fondamentale attraverso cui il reale si manifesta.

Differenze metodologiche:

  • Olismo semantico vs. divenire dialettico: Per Hegel, ogni determinazione si evolve nel divenire, mentre per Severino ogni determinazione coimplica immediatamente il tutto senza bisogno di sviluppo o superamento.
  • Ruolo della contraddizione: Hegel fa della contraddizione il motore del reale; Severino la considera un’illusione generata dall’isolamento semantico.
  • Tempo e eternità: Hegel integra il tempo come parte dello sviluppo dello Spirito; per Severino, il tempo è l’apparire successivo delle eterne determinazioni, ma non comporta alcun divenire ontologico (per Severino l’essere non è nel tempo ma il tempo è nell’essere).

Severino riformula radicalmente la dialettica hegeliana, rifiutandone il presupposto fondamentale del divenire. La sua filosofia non è un’antitesi a Hegel, ma un tentativo di mostrare come la stessa dialettica, se compresa nella sua essenza, non conduca al divenire ma all’eternità dell’essere. Per Severino, il metodo dialettico è valido solo nella misura in cui è riformulato come una semantica dell’intero, che non introduce l’entificazione de nulla o il divenire, ma riconosce l’apparire dell’essere come eterno e immutabile. In questo senso, Severino offre una critica costruttiva al pensiero hegeliano, ricollocando il metodo dialettico nel contesto della struttura originaria.

 

Il significato, le costanti e la loro relazione con il tutto

Nel pensiero di Emanuele Severino, il significato è la sintesi tra il contenuto determinato e la positività del significare. Ogni significato è un essere, e in quanto tale è parte del semantema infinito, ossia della totalità concreta di tutti i significati. Questo implica che il significato non è mai un’entità isolata, ma un momento del tutto, la cui identità si fonda sulla sua relazione con la totalità del significato originario​​.

Ente e significatocome termini intercambiabili

Severino afferma che ente e significato sono termini intercambiabili perché ogni ente è necessariamente un significato. La totalità dell’essere è dunque la totalità dei significati. Questa equivalenza sottolinea che non esiste un essere che non sia anche pensabile e, quindi, significante. Ogni significato è un ente, e ogni ente si manifesta come un significato nella struttura originaria​​.

Le costanti: definizione e tipi

Le costanti sono gli elementi necessari per la definizione e la coerenza di un significato. Un significato è posto solo quando sono poste tutte le sue costanti, poiché queste sono parte della sua essenza. Severino distingue vari tipi di costanti, che possono essere sintetizzate come segue:

  1. Costanti sintattiche:
    • Determinano la forma del significato.
    • La loro mancanza implica che il significato stesso non possa essere posto.
    • Ad esempio, il semantema infinito è una costante sintattica di ogni significato​​.
  2. Costanti non sintattiche (o iposintattiche):
    • Non determinano la forma del significato ma contribuiscono alla sua individuazione.
    • La loro mancanza trasforma il significato concreto in un significato astrattamente formale, privandolo della sua completezza​​.
  3. Costanti medianti:
    • Sono costanti di secondo livello, che si manifestano attraverso la mediazione di altre determinazioni.
    • Ad esempio, un significato complesso come «parte della totalità» include costanti medianti, come «maggiore della parte».

La relazione tra costanti e totalità

Ogni costante di un significato appartiene alla totalità del semantema infinito. La mancanza di una costante in un significato implica non solo la sua incompiutezza, ma anche una contraddizione con la struttura originaria dell’intero. Questo perché ogni significato è determinato in quanto parte del tutto, e la negazione di una costante implica la negazione dell’intero​​.

Nel sistema di Severino, il significato e le sue costanti rappresentano una sintesi inseparabile che si radica nella totalità del semantema infinito. Ogni significato è un ente, e ogni ente è significato; le costanti garantiscono la coerenza del significato come momento del tutto. La distinzione tra costanti sintattiche, non sintattiche e medianti permette di comprendere come ogni significato, anche nella sua particolarità, sia integrato nella totalità dell’essere e della verità originaria. Questa struttura dissolve l’illusione dell’isolamento e rivela la Necessità dell’interconnessione di tutti i significati.

 

Definizione e differenza tra significato semplice e significato complesso

Significato semplice: Il significato semplice è definito come un’entità semantica che, pur includendo una pluralità di aspetti o determinazioni, non è intrinsecamente composta da altre determinazioni distinte al suo interno. È un significato che si presenta come immediato e autosufficiente, senza richiedere una relazione predicativa o di sintesi con altri significati per essere posto. Un esempio di significato semplice potrebbe essere l'idea di «essere» nella sua accezione più pura e non ulteriormente analizzabile​​.

Significato complesso: Il significato complesso, al contrario, è costituito da una pluralità di momenti o determinazioni che si relazionano tra loro. Questa relazione implica che ogni momento sia determinato dagli altri, creando una struttura predicativa o sintetica. Un esempio di significato complesso è «questa estensione rossa», in cui i due momenti — «questa estensione» e «il colore rosso» — si determinano reciprocamente, formando una sintesi​​.

Differenze principali

  1. Natura semantica:
    • Il significato semplice è immediato e privo di ulteriori articolazioni interne; esiste come un tutto autosufficiente.
    • Il significato complesso è articolato, composto da una pluralità di momenti distinti ma interrelati.
  2. Relazione interna:
    • Nel significato semplice, non c’è relazione predicativa interna tra i suoi elementi, poiché esso è già determinato nella sua unità.
    • Nel significato complesso, i momenti si determinano a vicenda attraverso una relazione, come nel caso di una predicazione («questa estensione è rossa»).
  3. Esempi:
    • Semplice: «Essere formale» (l’«è» in «Questa lampada accesa»)
    • Complesso: «Questa lampada accesa», che implica una relazione tra «lampada» e «essere accesa»​​.

Il riconoscimento della distinzione tra significati semplici e complessi è essenziale per comprendere la struttura originaria del senso. Mentre i significati semplici rappresentano i limiti dell’analisi semantica, i significati complessi dimostrano la Necessità della relazione tra le determinazioni all’interno del campo semantico totale​​.

 

La contraddizione C

La contraddizione C rappresenta un aspetto essenziale della riflessione di Severino, essendo una contraddizione specifica che emerge dal tentativo di isolare una determinazione dal suo contesto necessario, ovvero dal campo semantico complessivo e dalle sue costanti. Di seguito esploriamo il significato di questa contraddizione, la sua relazione con il semantema infinito, le modalità del suo toglimento, e il suo significato nella logica originaria.

Definizione e caratteristiche

La contraddizione C si verifica quando un significato, nel suo essere posto, non include tutte le costanti che lo determinano. Essa non è una semplice contraddizione logica, ma una tensione ontologica che svela il legame necessario tra ogni significato e il campo semantico dell’intero. La sua definizione precisa è: «Quando la posizione di un significato S non implica la posizione di una o più costanti di S, ciò che si intende porre non è ciò che realmente si riesce a porre»​.

La contraddizione C non è immediatamente una negazione del significato posto, ma il segno che esso non è posto nella sua interezza. Ad esempio, se S è posto senza tutte le sue costanti, l’intenzione di porre S come completo genera un’autocontraddizione, poiché S è, in questo caso, «posto e non posto» contemporaneamente. La caratteristica secodo la quale tale contraddizione dipende da un’astrazione la rende una contraddizione «dialettica» più che «formale»​​.

Tipologie di contraddizione e specificità della contraddizione C

Severino distingue la contraddizione C da altre forme di contraddizione:

  1. Contraddizione come mancanza logica: Qui la contraddizione emerge da un limite epistemico o operativo, dove un significato non riesce a soddisfare i requisiti semantici o logici.
  2. Contraddizione del sopraggiungere: Legata al divenire temporale, questa contraddizione si manifesta quando il manifestarsi di un significato nega implicitamente la sua permanenza.
  3. Contraddizione C: A differenza delle precedenti, la contraddizione C è ontologica e radicata nella struttura dell’essere. Essa rivela che ogni significato astratto, pensato senza la totalità delle sue costanti, non può valere come completo, poiché è necessario che ogni significato sia radicato nel semantema infinito​​.

Il semantema infinito e il suo legame con la contraddizione C

Il semantema infinito è il campo semantico totale che include ogni significato e le sue costanti. La contraddizione C si genera quando un significato viene isolato da questa totalità. Dire che un significato S è posto senza il semantema infinito significa annullare la sua consistenza semantica, poiché ogni significato è costante di ogni altro significato solo in relazione al tutto. In breve, il semantema infinito è la condizione di possibilità per l’esistenza di ogni significato​​.

Il «toglimento» della contraddizione C

Per superare la contraddizione C, è necessario riconoscere la mancanza e integrarla. Questo processo non è solo un completamento logico, ma un riconoscimento che ogni significato astratto è sempre già un momento del tutto. Il toglierla non è un’operazione che elimina il problema, ma che rivela il legame necessario tra ogni significato e l’intero​​.

Ad esempio, se il significato S non include una delle sue costanti, il toglimento della contraddizione C può avvenire ponendo la costante mancante oppure riconoscendo che tale posizione è solo formale e non concreta. Questo significa che il pensiero deve ricondurre ogni significato al semantema infinito, che è la sua condizione necessaria​​.

La funzione metodologica della contraddizione C

  1. Svelare il legame con l’intero: La contraddizione C funge da guida per comprendere che nessun significato può essere pensato isolatamente, ma solo come parte di una totalità.
  2. Evitare l’astrazione: Essa mostra l’impossibilità di considerare un significato senza le sue costanti, evidenziando l’inadeguatezza di un pensiero astratto che non si fonda sulla struttura dell’intero.
  3. Integrare il finito nell’infinito: La contraddizione C evidenzia come ogni significato, anche nel suo essere finito, implichi il riferimento necessario all’infinito semantico.
  4. Dissolvere le aporie: Attraverso il suo toglimento, la contraddizione C aiuta a superare le tensioni tra immediatezza e mediatezza, finito e infinito, mostrando che ogni significato appartiene necessariamente alla struttura originaria​​.

La contraddizione C è, nella filosofia di Severino, uno strumento fondamentale per comprendere l’ontologia dell’essere e la totalità del significato. Essa non è un semplice errore, ma una manifestazione della necessità che ogni significato appartenga al tutto. Il suo toglimento non è un’operazione contingente, ma un riconoscimento della struttura necessaria dell’originario, che supera l’illusione dell’isolamento e dell’astrazione.

 

Analisi del significato, problematicità, progetto e relazione tra L-immediatezza e F-immediatezza

Il pensiero di Emanuele Severino si sviluppa intorno a concetti chiave che esplorano la struttura dell’originario. Tra questi spiccano l’analisi del significato, la problematicità originaria, il concetto di progetto, e la fondamentale relazione tra L-immediatezza e F-immediatezza. Questi elementi sono legati tra loro nella comprensione della totalità del significato e della necessità. Di seguito, analizzeremo ognuno di questi concetti e il loro significato metodologico.

Analisi del significato

L’analisi del significato rappresenta il tentativo di scomporre il contenuto semantico dell’originario in una pluralità di momenti. Questo processo, tuttavia, si confronta con la natura complessa e concreta del significato originario, che include una pluralità di significati immediati senza che questi possano essere separati dalla totalità. L’analisi del significato non è infinita, poiché ogni significato, pur nella sua complessità, rimane integrato nella struttura dell’originario, evitando un regressus in indefinitum​.

Per esempio, affermare «questa lampada è accesa» implica che la lampada e il suo essere accesa siano momenti distinti, ma inseparabilmente connessi nella totalità del significato. La struttura originaria garantisce che ogni significato, anche nella sua analisi, non possa essere astratto dalla totalità semantica​.

Problematicità originaria

La problematicità originaria è una condizione intrinseca alla struttura originaria, dove l’apertura al significato implica l’apertura al dubbio e alla contraddizione. La problematicità non è semplicemente un errore o una difficoltà, ma un momento costitutivo del pensiero che si confronta con l’intero. Essa nasce dal progetto di oltrepassare l’immediato e di esplorare ciò che si pone come altro rispetto all’originario (come immediato)​​.

Una definizione rigorosa di problematicità originaria è: «L'originario è problematico nella misura in cui non include nella sua immediatezza attuale la totalità delle costanti che lo costituiscono, aprendo così la possibilità di un progetto che ne esplori l'oltrepassamento»​.

Il concetto di progetto

Il progetto è l’apertura verso l’oltrepassamento dell’originario. Esso si pone come possibilità di esplorare il rapporto tra ciò che è immediatamente presente e ciò che si manifesta come altro. Il progetto, tuttavia, è sempre radicato nella struttura dell’originario e non può mai essere completamente astratto da esso. Esso rappresenta la tensione tra l’immediato e il possibile, dove la possibilità non è mai separata dalla necessità che la fonda​.

Separazione tra L-immediatezza e F-immediatezza

La relazione tra L-immediatezza (immediatezza logica) e F-immediatezza (immediatezza fenomenologica) è centrale nella struttura dell’originario. Quando queste due dimensioni vengono astrattamente separate, emergono aporie che compromettono la coerenza dell’originario. La F-immediatezza, isolata, appare come una mera presenza fenomenologica, priva della coerenza logica garantita dalla L-immediatezza. Al contrario, la L-immediatezza, separata dalla F-immediatezza, diventa un’astrazione priva di riferimento alla realtà fenomenologica (e.g., principio di non contraddizione concepito come astratto)​​.

La separazione tra L-immediatezza e F-immediatezza genera una doppia aporia: da un lato, ogni immediatezza diventa anche un momento mediato, dall’altro, il loro isolamento rende ciascuna infondata. La comprensione dell’originario richiede quindi di integrare queste due dimensioni, riconoscendole come momenti inseparabili di una stessa struttura​.

Funzione metodologica

  1. Integrare le dimensioni del significato: L’analisi del significato deve sempre riferirsi alla totalità, evitando l’astrazione e riconoscendo la complessità concreta dell’originario.
  2. Accettare la problematicità come costitutiva: La problematicità non deve essere evitata, ma compresa come momento essenziale della struttura dell’originario.
  3. Superare la separazione tra L-immediatezza e F-immediatezza: Questa integrazione garantisce che il pensiero rimanga radicato nella totalità del significato, evitando le aporie del nichilismo.

In conclusione, questi concetti offrono una metodologia per comprendere la struttura originaria nella sua complessità e necessità. Ogni analisi, ogni progetto e ogni esplorazione del problematico devono sempre riferirsi alla totalità del significato, integrando le dimensioni logiche e fenomenologiche dell’immediatezza per mantenere la coerenza dell’originario.

 

Il metodo generale per il toglimento delle aporie secondo Severino

Il pensiero di Emanuele Severino si confronta con le aporie come espressioni dell’isolamento delle determinazioni dalla struttura originaria dell’essere. Tali aporie non sono semplici contraddizioni logiche, ma esprimono tensioni ontologiche derivanti dall’errore fondamentale del nichilismo: la separazione tra le parti e il tutto. Il toglimento delle aporie è quindi un processo essenziale per restituire ogni determinazione alla sua connessione necessaria con il semantema infinito.

Il metodo di Severino si basa su un principio fondamentale: ogni aporia nasce dall’isolamento di una determinazione e può essere tolta solo riconoscendo il suo legame necessario con la totalità. Questo significa che il toglimento di un’aporia non consiste nell’eliminazione di un errore, ma nel riconoscimento che ogni determinazione, anche quando appare isolata, è già inclusa nell’originario​​.

Un aspetto centrale del metodo è il riconoscimento che il toglimento delle aporie non è un processo lineare o temporale, ma si realizza nella totalità dell’originario, dove ogni contraddizione apparente è già tolta in quanto inclusa nella Necessità. Ogni aporia, pur apparendo come un problema specifico, è sempre legata a una rete più ampia di relazioni semantiche​.

Il ruolo della negazione

La negazione gioca un ruolo fondamentale nel toglimento delle aporie. Per Severino, la negazione non è un semplice opposto dell’affermazione, ma un momento necessario della struttura originaria. Ogni negazione implica l’affermazione di ciò che nega, poiché non si può negare ciò che non è già presente. Questo significa che la negazione è sempre già inclusa nell’originario come tolta​​.

Ad esempio, abbiamo visto che affermare «l’essere non è» implica che l’essere sia già posto come presente, altrimenti la negazione non avrebbe significato. In questo senso, ogni negazione che pretende di isolare un significato dal tutto è autocontraddittoria, poiché presuppone ciò che nega​​.

Contraddizione C e il toglimento all’infinito

Sappiamo che la contraddizione C è una forma specifica di contraddizione che nasce dal fatto che una determinazione viene posta senza tutte le sue costanti. Questa mancanza genera una tensione che può essere tolta solo attraverso il progressivo riconoscimento delle costanti mancanti. Tuttavia, poiché ogni significato è sempre già parte di una rete infinita di relazioni, il toglimento della contraddizione C è un processo infinito: ogni costante aggiunta rivela ulteriori costanti mancanti, in un continuo ampliamento dell’orizzonte semantico​​.

Questo processo non è un limite, ma una testimonianza della struttura infinita dell’essere. Il riconoscimento che il toglimento è all’infinito dissolve l’illusione di un fondamento finito e definitivo, mostrando che ogni determinazione è sempre già radicata nell’infinito semantico​.

Il metodo generale di Severino per il toglimento delle aporie si fonda sul riconoscimento che ogni contraddizione è un’apparenza generata dall’isolamento e che ogni negazione è già inclusa nella struttura originaria come tolta. La contraddizione C, con il suo toglimento all’infinito, rivela la necessità di un pensiero che superi l’astrazione nichilistica e si radichi nella totalità dell’essere. Questo metodo non solo risolve le aporie, ma offre una visione integrale e necessaria della verità.

 

Il significato dell’oltrepassamento nel pensiero di Severino

Il termine oltrepassamento è centrale nella riflessione di Emanuele Severino e si lega strettamente alla struttura originaria della verità. Esso non è semplicemente il superamento di un limite, ma un movimento intrinseco alla totalità del significato, che si realizza nel rapporto tra l’immediato e l’intero semantico. Analizzare sul piano metodologico questo concetto significa comprendere come Severino articoli il rapporto tra l’essere, il divenire e la problematicità originaria.

Definizione di oltrepassamento

L’oltrepassamento è l’affermazione che l’immediato non è l’intero. Questo implica che la totalità dell’essere immediato, pur manifestandosi, non esaurisce il semantema infinito. L’oltrepassamento può essere definito come il riconoscimento della presenza di un orizzonte ulteriore rispetto all’immediato, che include e trascende le determinazioni presenti​​.

Tipologie di oltrepassamento

Severino distingue due tipi di oltrepassamento:

  1. Oltrepassamento in senso debole: Rappresenta la semplice affermazione che l’intero trascende l’immediato, senza implicare una contraddizione intrinseca. Questo tipo di oltrepassamento si manifesta nella struttura logica della totalità del significato, che si apre come ulteriore rispetto a ogni contenuto immediato​​.
  2. Oltrepassamento in senso forte: Coincide con il risolvimento della problematicità originaria. Non si tratta solo di affermare che l’intero è oltre l’immediato, ma di riconoscere che ogni problematica è inclusa nella struttura dell’intero come tolta. In questo caso, l’oltrepassamento si configura come una necessità intrinseca all’apparire dell’intero​​.

Oltrepassamento e problematicità originaria

L’oltrepassamento è strettamente connesso alla problematicità originaria, che si configura come l’apertura di un orizzonte in cui il divenire e l’essere si pongono come alternative. Questa problematicità non è un limite esterno alla struttura dell’originario, ma un momento della sua realizzazione. L’oltrepassamento è il risolvimento di questa problematica, ossia il riconoscimento che l’essere, nel suo manifestarsi, è già l’oltre di ogni immediatezza​​.

Funzione metodologica dell’oltrepassamento

Il concetto di oltrepassamento ha una funzione essenziale nella comprensione dell’originario:

  1. Superare l’astrazione: L’oltrepassamento mostra che ogni significato isolato, sebbene sembri indipendente, è necessariamente incluso nell’intero. Questa inclusione dissolve la contraddizione che si genera dall’astrazione.
  2. Integrare la temporalità nell’originario: L’oltrepassamento si manifesta anche come un movimento temporale, in cui il presente è incluso nel passato e nel futuro. Questo movimento dissolve l’apparente separazione tra i momenti temporali, mostrando che essi appartengono alla totalità del semantema infinito​​.
  3. Riconoscere la necessità dell’essere: Affermare l’oltrepassamento significa riconoscere che l’intero è la condizione necessaria per ogni apparire e che nulla può esistere al di fuori della sua totalità.
  4. Gestire il progetto dell’intero: L’oltrepassamento si realizza nel progetto che intende affermare l’intero non solo come orizzonte formale, ma come totalità concreta. Questo progetto, sebbene problematico, è intrinseco alla struttura del significato​​.

L’oltrepassamento, nel pensiero di Severino, non è un semplice movimento di superamento, ma una dinamica necessaria della struttura originaria. Esso rivela come ogni determinazione, pur apparendo come autonoma, sia sempre già radicata nella totalità dell’essere. La comprensione dell’oltrepassamento è dunque un passo essenziale per accedere alla struttura originaria e superare le aporie del pensiero tradizionale.


Sulla «differenza ontologica» in Martin Heidegger e Emanuele Severino

La differenza ontologica in Heidegger: Heidegger introduce la nozione di «differenza ontologica» per indicare la distinzione fondamentale tra essere ed ente. Questa differenza, secondo Heidegger, è stata dimenticata dalla metafisica occidentale, che ha ridotto l'essere a ente, ossia a ciò che è presente. L'essere, invece, non è un ente ma è ciò che permette agli enti di essere, la condizione del loro manifestarsi. Heidegger lo descrive come un «darsi» (es gibt), un apparire che si ritrae, illuminando l’ente ma nascondendosi al contempo. Nella sua ultima fase, l’essere viene pensato come Ereignis, l’evento che rende possibile il rapporto tra essere e uomo, un processo in cui l'essere si appropria e si disappropria di sé stesso [3]​​.

La differenza ontologica in Severino: Severino riprende il termine «differenza ontologica», ma ne modifica profondamente il significato. Per Severino, essa non è tra essere ed ente, ma tra l’apparire finito, ossia l’apparire degli enti come isolati, e l’apparire infinito, che è l’apparire del destino. L’apparire finito è caratterizzato dall’isolamento delle cose, che appaiono come separate dal tutto, mentre l’apparire infinito mostra ogni essente in relazione con la totalità concreta del destino. La differenza ontologica severiniana è, quindi, una critica alla fede occidentale nel divenire, che separa l’essente dal suo essere eterno​​.

Differenze fondamentali

  1. Oggetto della differenza:
    • In Heidegger, la differenza ontologica separa essere ed ente. L’essere non è un ente, ma ciò che «illumina» gli enti senza essere presente come uno di essi.
    • In Severino, la differenza ontologica separa due modalità dell’apparire: l’apparire finito, segnato dall’isolamento e dal divenire, e l’apparire infinito del destino, che mostra l’immutabilità e l’eternità dell’essente.
  2. Relazione con il nichilismo:
    • Heidegger considera il nichilismo come un evento legato alla dimenticanza dell’essere da parte dell’Occidente, ma non lo supera radicalmente. Per lui, l’essere rimane un processo che si dà e si ritrae, implicando una relazione con il nulla.
    • Severino vede il nichilismo come la radice dell’intera metafisica occidentale, che concepisce l’essente come esposto al nulla. Per Severino, il divenire è una fede nichilistica, e la vera differenza ontologica è quella che rivela l’eternità dell’essente nella sua relazione con il destino​​.
  3. Metafisica e oltrepassamento:
    • Heidegger non pensa contro la metafisica ma la scava, cercando di riportare alla luce la verità dell’essere. Egli non nega il divenire ma lo vede come un gioco tra essere e nulla.
    • Severino, invece, supera la metafisica in senso radicale, negando la possibilità stessa del divenire come annullamento e creazione. L’essente non è mai «esposto al nulla», ma è eterno nella sua relazione con la totalità.


La differenza ontologica in Heidegger e Severino riflette due vie distinte di pensare l’essere e il suo manifestarsi. Mentre Heidegger rimane legato a una concezione in cui l’essere si intreccia con il nulla e il divenire, Severino rompe con questa tradizione per affermare l’eternità dell’essente e il suo apparire infinito nel destino. Questa differenza rende evidente la distanza radicale tra il linguaggio heideggeriano e quello severiniano, nonostante alcune assonanze terminologiche​​.

 

Sulla differenza e sull'identità nel pensiero di Severino

La differenza in termini non nichilistici
Nel pensiero severiniano, la differenza non è intesa come una separazione ontologica tra gli enti, né come una frattura che espone gli enti al nulla o al divenire. Al contrario, la differenza è sempre avvolta dall'identità e partecipa alla totalità dell’essere che si manifesta nell’apparire infinito. La concezione nichilistica della differenza, tipica del pensiero occidentale, postula una frattura tra gli enti e l’essere, in cui l’essente è esposto al nulla. Per Severino, questa visione è il risultato della fede nel divenire, che concepisce gli enti come isolati e contingenti.

La differenza non nichilistica, invece, afferma che ogni essente è eterno e che la relazione tra le differenze non le espone al nulla, ma le inscrive nella struttura necessaria del destino. Ogni differenza è un momento della totalità, che si manifesta senza annullarsi o essere annullabile. La differenza, in questa prospettiva, è sempre distinta ma mai separata dall’identità.

La relazione tra differenza e identità
L'identità, nel pensiero severiniano, è l’esser sé dell’essente. Ogni essente è eterno nella sua identità e non può essere ridotto o dissolto nella differenza. Tuttavia, l’identità non è separata dalla differenza: ogni identità si manifesta avvolta dalla differenza, ma senza essere toccata da essa. Questo avvolgimento non implica modificazione, ma distinzione: l’identità appare come distinta dalla differenza ma non separata, esprimendo così una struttura necessaria e incontraddittoria.

Severino spiega che l'identità è tale proprio in quanto è «indifferente alla differenza». Essa è ciò che, pur avvolto dalla differenza, rimane immutato e non viene alterato da altre differenze. L’identità è quella differenza che, in un certo insieme, si manifesta come indifferente rispetto alle altre differenze. In questo senso, la differenza qualsiasi (ossia quella che si manifesta senza essere alterata da altre differenze) è l’identità​.

Superamento della separazione ontologica
Nella filosofia severiniana, l’identità e la differenza non sono due realtà ontologicamente separate, ma due aspetti del medesimo apparire dell’essere. Ogni identità è un’identità delle differenze, che non si annullano né si oppongono, ma trovano il loro significato nella struttura necessaria del destino. Questa concezione supera la tradizionale separazione ontologica, mostrando che la relazione tra identità e differenza non si risolve in una dialettica nichilistica, ma in una coimplicazione necessaria e innegabile.
Severino ridefinisce la differenza e l'identità in termini non nichilistici, opponendosi alla tradizione occidentale che ha separato l'essente dall'essere e l'identità dalla differenza. In questa prospettiva, la differenza non è mai una separazione, ma una manifestazione distinta e necessaria dell’identità che si dà nell’apparire infinito del destino. Questo ripensamento dissolve la radice nichilistica della filosofia occidentale e afferma la necessità eterna dell’essente nella totalità del suo manifestarsi.

 

Sul linguaggio, il rapporto segno-significazione e l’interpretazione

Il linguaggio e la sua relazione con il destino

Per Severino, il linguaggio non è un sistema puramente convenzionale o autosufficiente, ma un momento interno alla struttura della verità del destino. Il linguaggio storico, cioè quello comunemente utilizzato dai mortali, testimonia l’isolamento della terra dalla Necessità, rivelando così l’alienazione dell’essente. Tuttavia, anche all’interno del linguaggio storico può emergere un linguaggio che, pur utilizzando le forme e i segni della lingua ordinaria, testimonia il destino. Questo linguaggio, illuminato dalla Necessità, non è più sottomesso al nichilismo del pensiero occidentale. Non si tratta di un linguaggio inventato, ma di un linguaggio che si espone al bagliore della verità, consentendo alla parola di acquisire un senso che trascende l’apparente arbitrarietà storica del linguaggio stesso​​.

Segno e significazione

Il rapporto tra segno e significazione è uno dei nuclei concettuali del pensiero di Severino. Per lui, il segno linguistico non si esaurisce nel suo valore strumentale, ma è necessariamente legato al significato, che è l’essere stesso delle cose. Il segno indica, ma non esaurisce il significato, il quale trascende la parola che lo veicola. Questa trascendenza è fondamentale: il significato è sempre più del segno, ed è la manifestazione della verità dell’essente. Negare il significato della parola significa negare la stessa possibilità di apparire dell’essere, cadendo così nella contraddizione nichilistica che pretende di separare i segni dalle loro verità​​.

Il linguaggio come forma dell’isolamento e come testimonianza

Il linguaggio, nella sua forma storica e comune, è una manifestazione della volontà che isola le cose dalla totalità. Questo isolamento, tipico del nichilismo occidentale, trasforma il linguaggio in un luogo di rimandi infiniti tra segno e significato, senza mai raggiungere un fondamento. Tuttavia, quando il linguaggio diventa testimonianza del destino, questa struttura di rinvio si dissolve: le parole, pur restando storiche, diventano momenti della verità della Necessità. In questo senso, il linguaggio che testimonia il destino non ne altera la verità, ma ne rende visibile la struttura originaria​​.

L’interpretazione e il suo fondamento

L’interpretazione, per Severino, non è semplicemente un’operazione arbitraria di attribuzione di significato. L’interpretazione è la volontà di collegare un evento empirico a un significato attraverso un sistema di regole. Tuttavia, ogni interpretazione trova il suo fondamento solo nel destino. Il nichilismo occidentale, che riduce ogni interpretazione a un rimando infinito, si dissolve quando si riconosce che l’interpretazione si arresta davanti alla Necessità. La verità, come fondamento originario, non è un’interpretazione tra le altre, ma la condizione che rende possibile ogni interpretazione. Negare questo fondamento significa negare la possibilità stessa di un linguaggio significante​​.

La riflessione di Severino sul linguaggio e l’interpretazione non si limita a un’analisi semiotica, ma è una critica radicale al nichilismo che permea la tradizione occidentale. Il linguaggio, pur nella sua storicità, può testimoniare il destino, superando l’alienazione e riconducendo i segni alla verità necessaria dell’essere. In questa prospettiva, il linguaggio e l’interpretazione non sono strumenti fini a sé stessi, ma manifestazioni della struttura originaria che illumina la totalità del significato.

Il superamento del linguaggio

Nella riflessione di Severino, il linguaggio rappresenta un momento esdsenziale, ma non definitivo, nel rapporto con l’essere. Esso opera come mediazione, rendendo presente ciò che altrimenti rimarrebbe non detto e indicibile. Tuttavia, il linguaggio non esaurisce il senso dell’originario; anzi, esso rivela il proprio limite nel suo stesso funzionare. Come Severino sottolinea, il linguaggio è «un rinvio» che porta al manifestarsi del destino, ma non coincide con esso.

Andare oltre il linguaggio non significa negarlo, bensì riconoscerne il ruolo e i confini. Il linguaggio si ferma al limite dell’apparire, dove il destino si manifesta come chiarore eterno, ma il destino stesso trascende questa mediazione linguistica. Superare il linguaggio implica accedere a una dimensione in cui l’essere si rivela nella sua necessità incontrovertibile, dissolvendo l’illusione del divenire e del nulla.

Dal punto di vista metodologico, ciò richiede un doppio movimento:

  1. Un’indagine critica sul linguaggio, per svelare le contraddizioni e le tensioni insite nel tentativo di esprimere l’originario.
  2. Un’apertura al destino, inteso come struttura eterna e necessaria, che va compreso non attraverso un atto linguistico, ma nel manifestarsi diretto e incontrovertibile dell’essere.

In questo processo, Severino non riduce il linguaggio a un semplice strumento tecnico o comunicativo, ma lo valorizza come una via indispensabile per accedere al destino, pur sottolineandone l’insufficienza ontologica. Il superamento del linguaggio è quindi un invito a riconoscere il confine tra il dire e il manifestarsi dell’essere, aprendosi a ciò che trascende la parola.

 

«Oltre il linguaggio» nella filosofia di Severino

Per Emanuele Severino, oltre il linguaggio [4] non significa semplicemente abbandonare la dimensione linguistica o negarne l’importanza. Piuttosto, indica la necessità di riconoscere che il linguaggio, pur essendo indispensabile, non esaurisce il senso dell’essere e del destino. Il linguaggio è una mediazione, un momento del manifestarsi dell’originario, ma non è il fondamento ultimo della verità.

Severino sottolinea che il linguaggio si ferma al limite dell’apparire, essendo esso stesso parte del divenire e intrinsecamente legato alla temporalità. Esso è capace di dire l’essere, ma solo nella forma di un rinvio e di una mediazione, senza mai coincidere con ciò che dice. Per Severino, l’originario si manifesta come il chiarore eterno e necessario dell’essere, che trascende il linguaggio perché non può essere pienamente contenuto o esaurito dalle parole.

Andare oltre il linguaggio significa, dunque:

  1. Riconoscere il ruolo del linguaggio come mediazione necessaria, senza però confonderlo con l’essere stesso.
  2. Accedere al destino, inteso come struttura originaria e necessaria in cui ogni essente appare nella sua eternità incontrovertibile.
  3. Superare l’illusione del divenire, in cui il linguaggio sembra inscriversi, per cogliere l’essere nella sua necessità eterna, al di là della rappresentazione e della frammentazione propria del dire.

Oltre il linguaggio non rappresenta una negazione del linguaggio, ma un’apertura alla dimensione che lo trascende: il destino. Il linguaggio, nel suo rinvio continuo e nella sua contraddizione, conduce verso questa trascendenza, mostrando i suoi limiti e, al contempo, il chiarore dell’essere eterno che illumina ogni cosa.

 

 Ora, per un ripasso veloce è stata preparata qui una lista con i concetti essenziali espressi in forma «telegrafica».


Studio casa di Emanuele Severino
Scrivania nello studiolo del filosofo Emanuele Severino. Nell'angolo, vicino la finestra, è visibile la famosa lampada antica in stile «ministeriale» utilizzata numerose volte nei suoi esempi sul «dire» dell'originario e non solo – Centro Casa Severino 



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[1] Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, 1981 (orig. 1958)

[2] Francesco Berto, La dialettica della struttura originaria, Il poligrafo, 2003

[3] Nicoletta Cusano, Oltre il nichilismo, Morcelliana, 2011

[4] Emanuele Severino, Oltre il linguaggio, Adelphi, 1992

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