
La figura mette a confronto visivamente il comportamento dell’implicazione materiale e di quella formale usando la rappresentazione insiemistica di due sottoinsiemi, A e B, all’interno di uno spazio universale. Nel riquadro di sinistra, relativo all’implicazione materiale, l’area colorata in rosso rappresenta tutte le situazioni in cui l’implicazione «A implica B» è logicamente vera: si tratta dell’unione tra il complemento di A e l’insieme B (Aᶜ ∪ B), mostrando così che solo la zona non colorata – cioè gli elementi che appartengono ad A ma non a B – rende falsa l’implicazione. Nel riquadro di destra, relativo all’implicazione formale, la zona nera indica l’intersezione tra A e il complemento di B (A ∩ Bᶜ), che, per la validità dell’implicazione formale, deve essere vuota: ciò equivale a richiedere che ogni elemento di A sia anche elemento di B, cioè A sia contenuto in B (A ⊆ B). In sintesi, la figura mostra come l’implicazione materiale si basi su una condizione più debole, mentre l’implicazione formale esprime un vincolo strutturale di inclusione.
1 Introduzione
Il presente scritto nasce con il proposito di avvicinare il
conoscitore della logica formale classica al pensiero filosofico-dialettico di
Emanuele Severino, attraverso un punto essenziale e cioè la distinzione tra le
nozioni di «implicazione materiale» e «implicazione formale» introdotte da
Bertrand Russell nel contesto della sistematizzazione logica della matematica.
Il terreno di partenza è dunque il rapporto tra forma e contenuto nel
linguaggio logico, una relazione che, per Russell, è al centro del progetto di
fondazione della matematica, e che, per Severino, costituisce il fulcro stesso
della struttura originaria della verità dell’essere e della differenza con
quello che il filosofo bresciano riferisce come «pensiero occidentale», sebbene
vedremo che l’«implicazione materiale» permetta di avvicinarsi alla logica
dialettica severiniana ma non la esaurisce nella sua impostazione ontologica.
Nel panorama della filosofia contemporanea, il contributo di
Bertrand Russell risulta fondamentale per il modo in cui egli ha affrontato
rigorosamente le forme linguistiche della logica matematica, sollevando
questioni fondamentali relative al senso e all’uso delle proposizioni logiche.
Russell introduce, specialmente nei I principi della matematica (1903) e
successivamente nell’Introduzione alla filosofia matematica (1919), una
distinzione fondamentale tra due tipi di implicazione: quella materiale e quella
formale (ho trattato l'argomento in maniera approfondita qui). Questa differenza non si limita ad una pura questione tecnica, ma
investe direttamente il senso filosofico profondo del linguaggio formale, cioè
il rapporto tra ciò che è logicamente necessario e ciò che è logicamente
contingente.
L’implicazione materiale, come è noto, rappresenta una forma
di relazione logica basata esclusivamente sui valori di verità delle
proposizioni coinvolte, una relazione dunque verofunzionale, che può risultare
vera anche in assenza di qualsiasi reale connessione semantica o concettuale
tra antecedente e conseguente. Questo tipo di implicazione, definito
formalmente come «se p allora q», risulta falso esclusivamente nel caso in cui
l’antecedente p sia vero e il conseguente q sia falso. Per tutte le altre combinazioni
di verità (entrambe vere, entrambe false, antecedente falso e conseguente
vero), l’implicazione materiale è logicamente vera. Tuttavia, proprio questa
caratteristica, apparentemente innocua, produce un insieme di paradossi ben
noti alla logica, che Russell stesso ha chiaramente riconosciuto e
sottolineato. Ciò conduce Russell ad affermare la necessità di un altro tipo di
implicazione, ovvero l’implicazione formale, che non sia semplicemente una
questione di valori di verità, bensì una relazione logica strutturale e
necessaria, valida universalmente e intensionalmente significativa.
L’implicazione formale, secondo la prospettiva di Russell,
esprime infatti una relazione più forte rispetto a quella materiale. Essa
stabilisce, altresì, una necessità strutturale tra due proposizioni,
indipendentemente dal loro valore contingente di verità. Più precisamente,
quando Russell parla di implicazione formale, si riferisce a una relazione tra
funzioni proposizionali quantificate universalmente, cioè a proposizioni del
tipo: «per ogni x, se P(x) allora Q(x)». Questo tipo di proposizione esprime una
necessità strutturale interna, un legame concettuale intrinseco tra antecedente
e conseguente. L’implicazione formale è, dunque, un passaggio
filosofico-epistemologico fondamentale che Russell ritiene indispensabile per
la comprensione e la fondazione della matematica e della logica stessa. Non è
più sufficiente garantire la coerenza logica attraverso semplici tavole di
verità come per l’implicazione materiale che pertanto risulta meccanizzabile;
è necessario assicurare anche una struttura concettuale interna e universale
che garantisca la consistenza del linguaggio logico-matematico.
La distinzione operata da Russell risulta essenziale per
comprendere pienamente il passaggio dalla logica formale alla logica filosofica
e ontologica propria della dialettica di Emanuele Severino. Quest’ultimo,
infatti, nonostante parta da un terreno filosofico diverso, caratterizzato dal
linguaggio e dalla terminologia della tradizione metafisica occidentale, giunge
a porre questioni che richiedono esattamente una chiarezza estrema nella
relazione tra forma e contenuto. Severino affronta il problema della verità non
più soltanto nella dimensione astratta delle forme logiche, ma nella concreta
immediatezza dell’apparire degli essenti, ovvero di ciò che è concretamente
posto, determinato, immediatamente (non mediato da alcunché) presente. Ciò che
emerge nella filosofia severiniana è, dunque, un superamento critico
dell’implicazione materiale russelliana e un uso consapevole e radicalizzato
della nozione di implicazione formale. Tuttavia, Severino va ancora oltre,
ponendo la necessità logico-ontologica del contenuto al centro della sua riflessione
filosofica. Ma, si ritiene in questo scritto, il logico formale per avvicinarsi
alla logica dialettica non può non passare per l’essenza dell’implicazione
formale cui Russell ha speso molte pagine nei suoi scritti più tecnici.
Nella struttura originaria della verità dell’essere,
infatti, Severino considera non soltanto la forma astratta del legame logico,
ma anche il contenuto concreto e determinato di ciò che appare necessariamente.
Per Severino, affermare che qualcosa sia vero significa affermare che qualcosa
appare necessariamente, cioè che la negazione di questo apparire è
autonegazione e quindi impossibile. Questo principio – radicale e
ontologicamente forte – implica che ogni forma logica utilizzata non possa
essere semplicemente «astratta» rispetto al contenuto, ma che debba
necessariamente esprimere anche l’immediatezza determinata dell’apparire
concreto. Pertanto, la nozione di identità originaria che emerge in Severino – (A
= B) = (B = A) –, ad esempio nel celebre passaggio della «lampada accesa» (che
si approfondirà più avanti), non è una semplice identità astratta o formale, ma
è un’identità concreta che mette in relazione direttamente la forma logica
dell’identità (x = y) = (y = x) con la sua materia semantica ovvero il
contenuto determinato degli essenti.
La presente analisi procederà dunque con metodo sistematico,
chiarendo in primo luogo la distinzione russelliana tra implicazione materiale
e formale, per poi avvicinarsi gradualmente al linguaggio filosofico-dialettico
di Severino, noto talvolta come logica dialettica. Seguirà quindi un
approfondimento sul modo in cui la logica severiniana assume e supera il
formalismo russelliano, integrando necessariamente forma e contenuto. Infine,
attraverso l’analisi rigorosa di alcuni passaggi chiave della filosofia
severiniana, sarà mostrato in che misura la distinzione operata da Russell,
sebbene rigorosa e importante, non possa esaurire interamente la forza
ontologica e filosofica della dialettica della necessità propria di Severino.
Questo percorso filosofico-argomentativo ha, quindi, una
duplice valenza: da un lato, mira a mostrare la necessità e l’importanza della
distinzione russelliana per comprendere le fondamenta stesse della logica
formale e la base della sua problematicità; dall’altro, vuole evidenziare come
questa distinzione possa essere superata e radicalizzata sul piano ontologico,
come avviene nella filosofia dialettica severiniana. È proprio in questo
delicato equilibrio tra forma logica e contenuto ontologico che risiede la
rilevanza filosofica del presente saggio breve, il quale offre al lettore un percorso
di approfondimento che permette di transitare da una dimensione prevalentemente
formale e logico-matematica a quella più complessa e radicale della struttura
originaria dell’essere e della necessità.
In ultimo, si premette che dagli scritti di Russell summenzionati la logica formale ha fatto dei passi da gigante, passi dovuti ai «crucci» dello stesso Russell che nel tentare di fondare incontrovertibilmente la matematica si è scontratato con antinomie insormontabili che Kurt Gödel ha ben sistematizzato con i suoi famosi teoremi. Si è consapevoli che gli scritti citati sono datati eppure si riconosce che le problematizzazioni di Russell sono per certi versi ancora attuali e consentono di mostrare come lo stesso Russell sia partito da considerazioni di tipo ontologico anche se gli esiti erano guidati dal fornire una fondazione solida alla matematica e alla sua filosofia.
2 La distinzione tra implicazione materiale e
implicazione formale in Bertrand Russell
Nel quadro della rifondazione logica della matematica
intrapresa da Bertrand Russell all'inizio del Novecento, la distinzione tra
implicazione materiale e implicazione formale rappresenta un passaggio
essenziale per chiarire il ruolo dei connettivi logici all'interno del
linguaggio proposizionale e quantificato. Russell individua due modi
profondamente diversi in cui una proposizione condizionale del tipo «se A,
allora B» può essere interpretata, e tale differenza riflette due approcci
teorici differenti: uno orientato alla verità funzionale e l’altro alla
deduzione strutturale.
L’implicazione materiale viene definita da Russell
come una relazione verofunzionale tra due proposizioni, tale per cui «A
implica B» (formalmente A → B) è considerata falsa solo quando A è vera e B
è falsa, e vera in ogni altro caso. Essa si fonda sulla funzione
di verità che determina l’esito della proposizione complessa sulla base dei
valori di verità delle componenti. L’implicazione materiale non esprime,
dunque, alcun nesso necessario tra le proposizioni coinvolte, ma si limita a
enunciare una correlazione che può risultare vera anche in virtù della falsità
dell’antecedente. In altri termini, qualsiasi proposizione falsa implica
materialmente qualsiasi altra proposizione, vera o falsa che sia. Come afferma
Russell in Introduzione alla filosofia matematica, «se p è falsa, allora
"p ⊃ q" è sempre vera, non importa cosa sia q» (Russell, 1919, p. 143).
In questo senso, l’implicazione materiale, pur essendo
logicamente ben definita, appare debole dal punto di vista del contenuto,
in quanto la sua verità può essere assicurata anche in assenza di un qualsiasi
legame concettuale o inferenziale tra A e B. L’interesse per questa
implicazione risiede nella sua capacità di essere manipolata con rigore
all’interno dei sistemi simbolici, ma essa non garantisce alcuna connessione
necessaria tra i significati delle proposizioni.
Diversamente, l’implicazione formale introduce una
nozione ben più strutturata. Essa non riguarda proposizioni isolate, ma forme
proposizionali, cioè generalizzazioni logiche che assumono la forma «per
ogni x, se p(x) allora q(x)», ovvero ∀x (p(x) → q(x)). L’enfasi si sposta quindi dal valore di verità contingente delle proposizioni particolari al carattere necessario
della relazione tra le forme. L’implicazione formale implica che la relazione
tra le due funzioni proposizionali è tale da valere per ogni istanza
possibile (data la presenza del quantificatore universale), rendendo il
legame tra antecedente e conseguente intrinsecamente strutturale e necessario.
Per penetrare la differenza tra implicazione formale e
implicazione materiale, Russell fa uso del concetto di funzione proposizionale
dovuto a Peano. Questa nozione permette di distinguere tra proposizioni
singolari e schemi generali di proposizioni, poiché una funzione
proposizionale, come «x è un uomo», non esprime ancora una proposizione vera o
falsa, ma una forma che diventa proposizione solo quando si assegna un valore
concreto alla variabile x. Attraverso tale distinzione, Russell può formulare
l’implicazione formale come una relazione tra funzioni proposizionali: non si
tratta più di collegare semplici verità di fatto, come avviene
nell’implicazione materiale, ma di stabilire un vincolo universale tra interi
domini di proposizioni, secondo la struttura «per ogni x, se p(x), allora
q(x)». Questa formalizzazione, resa possibile dal linguaggio delle funzioni
proposizionali, consente di esprimere la necessità logica propria delle
deduzioni matematiche e delle inferenze rigorose, mettendo in evidenza come la
verità di un’implicazione formale non dipenda dai valori di verità delle
singole proposizioni, ma dalla coerenza strutturale che governa l’intero
dominio considerato. Russell stesso, in I principi della Matematica,
precisa (Russell, 1903, §22, p. 39):
«Possiamo spiegare (ma non definire) questa nozione nel
modo seguente: φx è una funzione proposizionale se, per ogni valore di x, φx è
una proposizione, determinata quando x è assegnato. Così, “x è un uomo” è una
funzione proposizionale. In ogni proposizione, per quanto complicata, che non
contenga variabili reali, possiamo immaginare che uno dei termini, purché non
sia un verbo o un aggettivo, venga sostituito da altri termini: invece di
“Socrate è un uomo” possiamo scrivere “Platone è un uomo”, “il numero 2 è un
uomo”, e così via. In questo modo otteniamo proposizioni successive, tutte
uguali tra loro tranne che per l’unico termine variabile. Sostituendo x al
termine variabile, “x è un uomo” esprime la tipologia di tutte queste
proposizioni. Una funzione proposizionale in generale sarà vera per alcuni
valori della variabile e falsa per altri. I casi in cui essa risulta vera per
tutti i valori della variabile, per quanto ne so, esprimono tutte implicazioni,
come ad esempio “x è un uomo implica x è mortale”; ma non conosco alcuna
ragione a priori per affermare che non possano esistere altre funzioni
proposizionali vere per tutti i valori della variabile».
Ciò significa che l’implicazione formale è una funzione
logica che riguarda la totalità degli argomenti di un certo dominio: solo
quando questa struttura viene «attualizzata» su un soggetto, essa si trasforma
in una proposizione suscettibile di essere vera o falsa. In assenza di soggetto
determinato, essa permane nella sfera della forma pura, come condizione della
possibilità stessa della deduzione.
Da ciò si deduce che l’implicazione formale possiede un
carattere di necessità logica, non riducibile alla dimensione
verofunzionale. Non è una condizione sufficiente per la verità, bensì una
condizione strutturale per la deducibilità, per la validità universale del
passaggio da p(x) a q(x). In questo contesto, l’implicazione formale diviene la
forma pura del legame logico, e costituisce il fondamento su cui si
innestano sia la deduzione matematica che il pensiero filosofico nella sua
dimensione analitica.
Un’altra distinzione rilevante è che, mentre l’implicazione
materiale è simmetrica rispetto alla verità (cioè, consente l’inferenza
inversa in modo improprio, come nei casi in cui l’antecedente è falso),
l’implicazione formale è direzionale e fondata su una relazione
funzionale tra domini concettuali. Essa si articola come una struttura che include
l’universo degli oggetti per cui p(x) vale, all’interno dell’universo per cui
q(x) vale: tale inclusione sarà poi discussa in modo più tecnico nella prossima
sezione.
Infine, si può osservare come questa distinzione tra le due
implicazioni – la prima verofunzionale e contingente, la seconda strutturale e
necessaria – assuma un’importanza decisiva per comprendere quale forma
logica sottenda realmente il discorso filosofico che pretenda di essere
necessario. Sarà proprio in questo passaggio – dalla mera correlazione di
verità all’affermazione necessaria dell’essere – che si aprirà il dialogo con
la riflessione severiniana.
Prima di procedere in un isomorfismo insiemistico che
permette di comprendere la differenza sostanziale tra implicazione formale e
implicazione materiale, ricordiamo cosa intende Russel per proposizione e, al
contempo cosa non è una proposizione propriamente detta:
La proposizione è una espressione come «Socrate è un uomo»
(ossia, «x è un uomo» quando x è sostituito da un valore concreto), e può
essere vera o falsa. Mentre un’espressione come «x un uomo» con la
variabile libera non è una proposizione, ma una forma schematica (una
«funzione proposizionale»), perché non è né vera né falsa fintanto che x
non è specificato. Nelle parole de I principi della Matematica (Russell,
1903, §13, p. 32):
«Si può dire che una proposizione è qualunque cosa sia
vera oppure falsa. Un’espressione come “x è un uomo” quindi non è una
proposizione, perché non è né vera né falsa. Se si assegna a x qualunque valore
costante, l’espressione diventa una proposizione: si tratta dunque, per così
dire, di una forma schematica che rappresenta ciascun elemento di un’intera
classe di proposizioni. E quando si afferma “x è un uomo implica x è mortale
per tutti i valori di x”, non si sta asserendo una singola implicazione, ma una
classe di implicazioni; si ha ora una vera proposizione, nella quale, sebbene
la lettera x compaia, non vi è alcuna variabile reale: la variabile è assorbita
nello stesso modo in cui la x sotto il segno integrale in un integrale definito
viene assorbita, così che il risultato non è più una funzione di x».
3 Analisi logico-insiemistica della differenza tra
implicazione materiale e implicazione formale
La distinzione concettuale tra implicazione materiale e
implicazione formale può essere illuminata attraverso un confronto con il
linguaggio della teoria degli insiemi (Russell si sarebbe riferito alle
«classi»). La trasposizione logico-insiemistica non è soltanto una metafora
didattica, ma un vero e proprio strumento euristico per far emergere le diverse
strutture ontologiche soggiacenti alle due forme di implicazione (si veda la figura e la sua spigazione).
Nel caso dell’implicazione formale, il legame tra
antecedente e conseguente assume la struttura dell’inclusione insiemistica
stretta e necessaria. Se si considerano due predicati p(x) e q(x), che
definiscono rispettivamente due insiemi A = {x | p(x)} e B = {x | q(x)}, allora
l’implicazione formale ∀x (p(x) → q(x))
equivale all’enunciato che ogni elemento
dell’insieme A è anche elemento dell’insieme B, ossia A ⊆
B. Si tratta di un’inclusione totale e universale,
priva di eccezioni, in cui l’insieme A è interamente contenuto in B. È proprio
questa totalità che conferisce alla relazione un carattere di necessità, poiché
il mancato rispetto dell’inclusione in qualunque istanza ne comprometterebbe la
validità.
A differenza di questa struttura ordinata e necessitante, l’implicazione
materiale introduce un’articolazione più problematica. L’enunciato A → B,
interpretato come implicazione materiale tra due proposizioni A e B (non più
predicati), può essere rappresentato insiemisticamente solo in maniera
approssimativa. Se A e B sono intesi come sottoinsiemi dell’universo degli
stati del mondo o dei contesti di verità, allora la relazione A → B non
richiede che A sia incluso in B, ma soltanto che non esista alcun elemento
che appartenga ad A ma non a B, ossia che A ∩ (¬B) = ∅.
Ciò significa che, in termini insiemistici, l’implicazione
materiale ammette che A e B siano insiemi disgiunti (A ∩ B = ∅),
oppure che A sia contenuto in B (A ⊆ B), ma anche che A sia vuoto (A =
∅),
nel qual caso l’implicazione risulta comunque vera
per il principio dell’ex falso quodlibet. L’unica configurazione che rende falsa l’implicazione
materiale è la presenza di elementi in A che non
appartengono a B, ovvero un’intersezione non vuota tra A e ¬B. Questa zona
di intersezione – A ∩ (¬B) ≠ ∅ –
rappresenta il luogo della contingenza, dove l’antecedente risulta vero
e il conseguente falso, invalidando l’implicazione.
Questa differenza si riflette nella struttura logica
profonda, in quanto mentre l’implicazione formale si costituisce su un vincolo
interno e costitutivo tra contenuti (tutti gli x che soddisfano p(x)
soddisfano necessariamente anche q(x)), l’implicazione materiale si limita a constatare
l’assenza di contraddizione tra le due proposizioni, senza esprimere alcuna
connessione reale tra i loro contenuti. La prima implica un ordinamento
strutturale, la seconda un mero controllo sintattico sui valori di verità.
È a questo livello che si manifesta con evidenza la
divergenza tra necessità e contingenza: nell’implicazione formale, l’insieme A
è necessariamente incluso in B, mentre nell’implicazione materiale si
può dire che non è escluso da B in modo contraddittorio. Questo
passaggio dall’inclusione strutturale all’assenza di conflitto costituisce la
soglia tra il dire necessario e il dire puramente verofunzionale.
Tale distinzione ha ricadute significative quando si
riflette su sistemi filosofici che pretendono di fondare il pensiero
sull’identità e sulla necessità dell’essere. In questi casi, come si vedrà nel
confronto con il pensiero di Emanuele Severino, l’implicazione formale offre
una struttura più adatta per descrivere un ordine – del dire – che non ammette
eccezioni, e in cui la relazione tra i termini coinvolti non è questione di
verità occasionale, ma di costituzione ontologica.
4 Considerazioni critiche sul carattere ontologico
dell’implicazione formale e sua relazione con la dialettica severiniana
L’implicazione formale, nella sua struttura più astratta, si
configura come una relazione necessaria tra contenuti concettuali, espressa
classicamente nella forma ∀x (p(x) → q(x)).
In questa forma, l’implicazione non rappresenta un mero
passaggio da una proposizione vera a un’altra, ma
afferma una relazione strutturale e universale tra predicati. In tal senso,
essa non è subordinata alla verità contingente dei suoi membri, come accade nell’implicazione materiale, ma si costituisce come vincolo
necessario tra i significati che essi veicolano. Il valore di questa struttura
non risiede dunque nella mera compatibilità tra antecedente e conseguente, ma
nell’ordine che regola il contenuto stesso delle proposizioni.
Nel pensiero di Emanuele Severino, e in particolare ne La
struttura originaria, tale ordine necessario non è soltanto un attributo
formale del pensiero corretto, ma l’espressione stessa dell’essere come
destino immutabile del senso. Il discorso severiniano, nella misura in cui
intende muoversi all’interno dell’ambito della necessità, non può che
assumere una struttura che si avvicina a quella dell’implicazione formale, benché
la superi radicalmente nel suo fondamento ontologico.
Il dire che descrive la struttura originaria della verità
non può tollerare che la relazione tra i termini si fondi su un meccanismo
verofunzionale, come accade per l’implicazione materiale. Quest’ultima,
infatti, ammette che l’implicazione sia vera anche nel caso in cui
l’antecedente sia falso o il conseguente sia banalmente vero per altre ragioni,
perdendo così ogni nesso necessario con la totalità del discorso. In Severino,
invece, ogni affermazione dell’essere è un atto assoluto e irrevocabile, e la
relazione tra i termini del discorso ha natura fondativa e non strumentale.
La dialettica severiniana, nella sua radice, implica dunque
che ogni proposizione autenticamente pensata debba necessariamente contenere
ciò che essa afferma, e non semplicemente riferirvisi. In questo senso,
l’implicazione formale – pur nella sua astrazione – mostra una struttura
analoga a quella richiesta dalla struttura originaria, poiché essa non si
limita a far derivare il consequente dall’antecedente, ma esprime una
coappartenenza interna, un’intima identità tra i significati che vi si
annodano.
Tale coappartenenza si manifesta con chiarezza nel modo in
cui Severino affronta l’identità come fondamento primo del senso.
L’identità tra l’essente e il suo essere non è un principio tra gli altri, ma
il luogo in cui il senso si dà come destino incontrovertibile. La struttura
logica più adatta a riflettere questa necessità non è quella che dipende dal
valore di verità dei suoi componenti, ma quella che, come l’implicazione
formale, si radica nella struttura stessa del significato e della totalità.
Naturalmente, Severino non si limita a questa impostazione
formale. La sua filosofia non si esaurisce nell’adozione di uno schema logico
astratto, ma riplasma il senso stesso della logica alla luce di
un’ontologia in cui il darsi dell’essente è già sempre il darsi del
significato, e ogni negazione autentica (nichilistica) è impossibile. Tuttavia,
proprio per questa ragione, la distanza dalla logica verofunzionale (come
quella sottesa all’implicazione materiale) è ancora più netta in quanto mentre
quest’ultima consente l’eventualità, la dialettica severiniana si istituisce
come negazione della possibilità del divenire e dell’errore.
È in questa prospettiva che l’implicazione formale, pur
nella sua povertà espressiva rispetto alla pienezza dell’ontologia severiniana
espressa con la logica dialettica, si offre come schema logico affine alla
struttura necessitante del dire autentico. Essa non è soltanto un modello
sintattico, ma diviene, se pur trascesa, una sorta di figura preparatoria del
pensare necessario, in cui la forma dell’inferenza logica si avvicina, pur
senza coinciderci, alla struttura del destino dell’essere. Questo è il punto
logico che dovrebbe avvicinare il logico formale – abituato a ragionare in
termini di verofuzionalità – al dire severioniano.
5 La filosofia della struttura originaria di
Emanuele Severino e il ruolo della necessità del dire
Nel cuore della filosofia di Emanuele Severino si trova la «nozione»
di «struttura originaria» come fondamento intrascendibile del senso e
non solo come fondamento ontologico. Essa non è una costruzione concettuale
astratta né un postulato epistemico, ma il modo in cui il dire autentico
si dà necessariamente come rivelazione dell’essere degli essenti. In
questo quadro, la necessità non è una proprietà accidentale del discorso
corretto. La necessità è il modo stesso in cui l’essente si mostra (appare),
ed è inseparabile dall’identità che vincola ogni essente al proprio essere.
Ciò che Severino chiama «dire autentico» è la parola che non
lascia fuori nulla di ciò che è e non assume la negabilità dell’essere. In
questa parola, il logos non è funzione accessoria o interpretativa, ma atto
attraverso cui l’essente si mostra come ciò che è, ossia come immutabile.
Dire che qualcosa è, equivale, nella struttura originaria, a dire che esso è
eterno, ossia non diviene mai altro da sé e non può divenire (o provenire dal)
nulla. Questo vincolo si esprime in termini logici attraverso una necessità
che non è modale, ma ontologica.
La necessità del dire, in questo senso, non è né soggettiva
né esterna. Essa è interna al rapporto tra il logos e il senso. Il
pensiero non produce il senso, ma lo rivela. E questa rivelazione è
possibile solo se il senso si mostra come ciò che non può non essere,
ovvero come essere assolutamente determinato e non eliminabile. La necessità
non emerge dunque da una forma logica assunta per convenzione, ma è il
contenuto stesso del manifestarsi del vero come struttura originaria.
A differenza dell’impostazione classica della logica
formale, in cui il carattere necessario dell’implicazione si fonda sulla
struttura universale della forma (∀x (p(x) → q(x))),
nella struttura originaria severiniana la necessità è pre-logica in quanto ontologica. Essa è ciò che permette
alla logica stessa di esistere, poiché è la condizione di possibilità del
senso. L’implicazione tra A e B non è solo una relazione deduttiva, ma è
fondata sull’identità tra ciò che è e il suo essere: A non può che essere A, e
ogni negazione di tale identità (in senso originario, vedi oltre) è
autonegazione del discorso stesso.
È in questa luce che si comprende il radicale rifiuto
severiniano dell’intero apparato storico del divenire: ogni divenire, inteso
come passaggio dal non essere all’essere o viceversa, implica la possibilità
che l’essente non sia, e quindi la «distruzione» dell’identità.
Ma l’identità, per Severino, non è un principio logico tra gli altri, in quanto
essa è la struttura stessa del senso, che il dire non può violare senza
contraddirsi. La coerenza logica non è dunque un criterio esterno alla verità,
ma il suo modo di apparire.
In questo contesto, anche l’implicazione, intesa come schema
del pensiero deduttivo, perde la sua funzione derivativa e assume un carattere rivelativo:
essa non costruisce la verità, ma la mostra nella sua struttura
necessaria. L’implicazione autentica non collega due contenuti separati, ma dischiude
l’unità interna del senso, la sua struttura di non contraddizione e di
eternità.
Se l’implicazione formale, come abbiamo osservato, può
fungere da schema logico affine a questo modo di dire, è però solo nella
filosofia della struttura originaria che tale schema viene a mostrarsi con
carattere ontologico. Il pensiero non si limita a osservare che, dato A,
segue B, ma riconosce che A implica B perché entrambi sono nella verità come
identità relazionali (dove la relazione è co-originaria e non
sopraggiungente ai suoi termini). È in questo passaggio che la necessità assume
il suo significato profondo e cioè non più necessità del calcolo o del
formalismo, ma necessità dell’essere nell’identità con l’apparire (fenomenologico).
In definitiva, il pensiero severiniano non si oppone alla
logica, ma ne trasforma il fondamento, radicandolo in un’ontologia del
senso che non può essere contraddetta senza che si contraddica il pensiero
stesso. L’implicazione non è allora semplicemente uno strumento del ragionare:
è la forma attraverso cui l’essere si afferma come ciò che non può non
essere, e il dire come ciò che non può non dire la verità.
6 L’identità originaria (A = B) = (B = A) e il
legame con la forma logica dell’identità (x = y) = (y = x)
Uno dei passaggi più densi e significativi
dell’«Introduzione» de La struttura originaria di Emanuele Severino si
concentra sulla distinzione tra l’identità formale, propria del
linguaggio logico-matematico, e l’identità originaria, che invece si dà
come struttura costitutiva del senso stesso dell’essere. Severino, al fine di
chiarire in che modo l’identità non sia un concetto vuoto o astratto, ma ciò in
cui il significato stesso di ogni essente consiste, introduce un esempio dal carattere
apparentemente banale: «la lampada che è accesa» è identica a «l’essere acceso che
è di questa lampada». Tale esempio serve a mostrare che ogni enunciato vero
è fondato sulla struttura dell’identità.
Severino pone così in relazione l’identità concreta (A
= B) = (B = A) tra
due determinazioni (due certi essenti), che chiama A e B, con la
forma dell’identità (simmetrica) espressa logicamente – cioè formalmente
– come: (x = y) = (y = x).
Questa formula, comune nelle trattazioni logico-formali,
enuncia la simmetria dell’identità: se un oggetto x è identico a un
oggetto y, allora y è identico a x sottolineandone il carattere relazionale in cui, di fatto, in identità sono poste delle relazioni.
Tuttavia, Severino chiarisce che tale simmetria, se lasciata sul piano
puramente formale, resta vuota di contenuto ontologico (e una forma astratta).
Per non essere un «astratto» – ovvero un’astrazione indeterminata e priva di
senso concreto – tale struttura formale deve relazionarsi all’identità
originaria, dove i termini A e B non sono lettere vuote o variabili
indeterminate, ma sono essenti determinati il cui essere è, quindi, determinato.
Inoltre, l’identità originaria (A = B) = (B = A)
che nel dire è una relazione tra soggetto A e predicato B non è qualcosa che si
compone a posteriori. Soggetto e predicato non vengono prima della loro
relazione essi sono contestuali alla relazione, meglio dire cooriginari. Questo
è un punto essenziale e che Severino spiega bene nell’introduzione a La
Struttura originaria (cfr. §2 La struttura del dire, p. 24 – vedi oltre).
È proprio in questo passaggio dalla forma all’essenza
che si colloca il nodo più profondo della riflessione severiniana. L’identità
logica, per quanto necessaria e universalmente valida, non è ancora la
struttura che mostra ciò che un essente è. È invece nella struttura
originaria dell’identità – ovvero nel riconoscere che A è B non come
pura equivalenza formale, ma come affermazione di un’unità ontologica – che si
realizza il significato pieno del dire.
Così, l’identità logica tra due predicati o termini (A = B)
può essere interpretata sul piano formale come la condizione di verità secondo
la quale ogni proprietà di A è anche proprietà di B e viceversa. Ma per
Severino, l’originarietà dell’identità non si esaurisce in questa equivalenza
di predicati o in una simmetria proposizionale. Essa implica che il
contenuto determinato A è identico, nell’essere, al contenuto determinato B,
e che tale identità non è soppressa dal divenire, dal nulla, o dal possibile venir
meno. Qui emerge con forza il nesso tra identità e eternità: ogni
essente è ciò che è, e non può non esserlo.
Il richiamo severiniano alla forma logica dell’identità non
ha dunque lo scopo di sottolineare una struttura sintattica del linguaggio, ma
quello di esigere che ogni forma abbia un contenuto e che ogni contenuto
si dia come non eliminabile. Il formalismo vuoto è qui superato, ma non
rigettato. Anzi, esso è riconosciuto come struttura necessaria – ma non
sufficiente – del pensiero corretto. Solo se la forma si congiunge con il
contenuto dell’essente – solo se x e y sono enti determinati –
allora l’identità assume il significato originario e diventa struttura portante
del vero.
In questo senso, la relazione tra identità originaria e
identità logica non è di opposizione, ma di fondazione: la prima è la
condizione per la seconda. L’identità logica assume significato solo se è
radicata nella verità del senso, cioè nella impossibilità che l’essente
non sia ciò che è. La simmetria formale (x = y) = (y = x), che nella logica è
assunta come verità tautologica, diventa nella filosofia di Severino
l’espressione di un contenuto ontologico e cioè che ogni essente è eternamente
sé stesso e che questa identità non è soggetta ad alcuna condizione estrinseca
o fattuale.
Severino nell’introduzione de La struttura originaria
rammenta che (Severino, 1958, §2 La struttura del dire p. 32) «[…] in questo libro si continuano
a chiamare proposizioni “analitiche”, “sintetiche”, “sintetiche a priori” i
diversi modi in cui si struttura l'identità originaria del dire della Necessità
– dove la diversità di modo è data dal diverso tipo di equazioni identificate
nell'identità originaria» e continua:
«[…] ossia è data dal fatto che queste equazioni, come
concretamente distinte dall'identità originaria del dire, possono essere tali
che la loro negazione, rispettivamente, è immediatamente autocontraddittoria,
non è immediatamente autocontraddittoria, è mediatamente autocontraddittoria.
Come concretamente distinte; ossia non come isolate, separate dall'identità
originaria, ma considerate nel loro semplice differire da tale identità - quel
semplice differire, ossia quel concreto distinguersi, per cui, in (x = y) = (y
= x), x = y non è (x = y) = (y = x). È appunto in questo loro concreto
distinguersi che esse possono valere come qualcosa la cui negazione non è
immediatamente autocontraddittoria. Ché se tali equazioni sono assunte non in
questo loro concreto distinguersi, ma nel loro isolamento dall'identità
originaria del dire, allora, qualunque sia il loro contenuto, esse sono
immediatamente autocontraddittorie. Nel loro concreto distinguersi
dall'identità originaria del dire, queste equazioni non sono dunque quella κατὰ φαντασίαν [katà phantasían –
trad. lett. "secondo l'immaginazione" o "secondo fantasia"]
che per Aristotele non può costituirsi come parte del λόγος αὐτοφανής [lógos autophanḗs – trad. lett. "discorso
che appare da sé" o "discorso autoevidente"] appunto perché la
κατὰ φαντασίαν è
l'equazione x = y separata dall'identità originaria (cioè, tale che in essa il
soggetto è isolato dal predicato)».
In altre parole e riferito sinteticamente, Severino
concepisce l’identità originaria delle determinazioni (A = B) =
(B = A) non isolata dalla componente formale (x =
y) = (y = x) bensì in relazione originaria ad essa. Forma è contenuto sono in
una relazione inscindibile che solo in una fase analitica possono essere
distinte (quindi concepite su un piano concreto dell’astratto) ma mai isolate
pena incorrere in una contraddizione (dialettica).
Ne La struttura originaria è del tutto esplicito che
i vari tipi di proposizioni, così come si presentano agli occhi del pensiero
occidentale, sono connessioni autocontraddittorie, cioè alienazione della
verità, e che il dire della Necessità ha un senso essenzialmente diverso da quello
stabilito dal pensiero logico dell'Occidente.
L’identità originaria è quindi struttura dell’apparire
del senso, non inferenza (men che meno meccanica o meccanizzabile) né
deduzione. In essa, il logos non costruisce la verità, bensì la accoglie
nella sua necessità. Non si tratta più di un’uguaglianza tra simboli, ma di una
rivelazione dell’essere degli enti nella loro appartenenza al tutto
concreto. È questa consapevolezza che permette di comprendere come l’intera
costruzione logica della modernità, compresa l’implicazione formale, poggi su
un fondamento che essa stessa non tematizza ovvero l’impossibilità che
l’essente non sia, che costituisce il cuore della struttura originaria.
7 Precisazioni logiche e filosofiche sullo statuto
della forma e del contenuto nel pensiero severiniano
Nel pensiero di Emanuele Severino, uno dei punti di svolta
teoretici più profondi consiste nella ridefinizione radicale del rapporto tra
forma e contenuto. Tale ridefinizione non avviene come semplice distinzione tra
struttura e materia del discorso, bensì come consapevolezza dell’unità
originaria entro cui forma e contenuto si coappartengono in modo inscindibile
(non isolabile, pena il contraddirsi). Non si tratta, dunque, di attribuire
alla forma un primato astratto, né di sottomettere la forma alla molteplicità
dei contenuti. Piuttosto, Severino mostra come ogni forma – anche quella della
logica più rigorosa – trae senso e necessità solo in quanto si radica
nell’orizzonte dell’essere e delle sue determinazioni, e cioè nella struttura
originaria che manifesta l’identità assoluta dell’essente con sé stesso (questo
è il senso teoretico del termine «eternità»).
All’interno di questo quadro, l’idea – propria della logica
classica – che la forma possa operare indipendentemente da ciò che essa «forma»,
è rovesciata. Non perché venga negata la potenza della forma, ma perché se ne
scopre il fondamento ontologico. La forma è tale solo se è forma di un
contenuto determinato, e questo contenuto, nel pensiero severiniano, non è
una materia disponibile alla manipolazione o alla negazione, bensì è un essente
eterno, che non può non essere ciò che è. In questa luce, la distinzione
scolastica tra forma e materia viene superata da una concezione in cui il
significato stesso di entrambi i termini è trasformato: la forma diventa
l’atto con cui l’essere appare, mentre il contenuto è l’essente che
necessariamente è (è la necessità della materia semantica).
Nel linguaggio della logica, una forma può essere pensata
come uno schema. Ad esempio, l’implicazione formale ∀x (P(x) → Q(x)) trattata da Russell rappresenta una regola generale che
vale per ogni elemento di un dominio. Tuttavia, tale validità, nel quadro di Severino, non è ancora
la verità piena. Potremmo dire che la «formalità» in
∀x
(P(x) → Q(x)) è una condizione necessaria ma non
sufficiente da sé per dire la necessità anche se quel «∀x» è un
chiaro anelito alla totalità semantica, sebbene in logica formale la totalità
sia sempre soggetta ad una classe che soddisfa una qualche proprietà, quindi ad
un qualcosa di restrittivo, mentre la struttura originaria importa che la
totalità semantica è costante presintattica di ogni significato ovvero
l’isolamento logico dalla totalità semantica implica l’indeterminatezza del
significato. Ciò è legato a doppio filo con la «relazione semantica
fondamentale (RSF)» così come delineata ne La dialettica della struttura originaria
e cioè (Berto, 2003, p. 24):
«[…] la relazione, il nesso dialettico necessario, fra un
qualunque significato a e la sua negazione infinita non-a. Chiamo non-a
“negazione infinita”, poiché in essa è posto, seppure in modo in qualche misura
formale, l’intero del contraddittorio di a: la totalità del suo altro. Questa
relazione è una coimplicazione: la posizione (l’apparire, il concetto,
l’affermazione) di a implica la posizione (l’apparire, il concetto,
l’affermazione) di non-a, e viceversa (a ⇔ ¬a)».
Tale relazione semantica fondamentale ha un nesso non
secondario con ciò che Berto definisce, nel fornire un principio alla logica
dialettica, «Principio dell’olismo semantico (OS)», per cui «Ogni
significato si determina solo nella relazione con la totalità del proprio
altro, cioè nella relazione dialettica con la propria negazione infinita».
Per cui «Emerge cioè che la determinatezza, o identità, o
esser sé del significato, si realizza solo in quanto questo è posto come
relazione alla (determinatezza della) totalità del suo altro (alla sua
negazione infinita), e dunque all’intero campo semantico: secondo quanto
afferma il principio (OS)».
In relazione alla dialettica severiniana Berto ci ricorda,
inoltre, che (Berto, 2003, p. 31): «Nel cap. XVI di Tautòtes infatti si esamina
la relazione dell’“essere insieme ad altro” (cfr. I, 1, § 5), affermando che
qualunque significato “è identico […] al suo essere insieme alla totalità degli
essenti”, alla “totalità assoluta dell’essente”. Porre un qualunque significato
senza porlo “come un essere insieme ad altro, significa pensare un niente”,
ossia contraddirsi: e questo è appunto ciò che produce l’intelletto, quando
pensa la determinazione a senza pensarla nella sua relazione alla totalità del
suo altro.» da cui si deduce che «Ogni significato è in relazione alla totalità
del suo altro, alla propria negazione infinita».
È qui che entra in gioco la totalità semantica ed
addirittura si comprende anche il senso della negazione in Severino, la quale è
sempre un positivo e come egli stesso ci dice in Tautòtes nell’introdurre
l’essere-insieme-a, «essere non» è un «essere con», specificatemente, nelle
parole di Severino in Tautòtes (Severino, 1995, p. 151):
«Essere insieme (essere con) è essere negazione (essere
non). Qualcosa può essere insieme ad altro, perché non è l’altro; qualcosa può
non esser l’altro, perché è insieme all’altro. Se il qualcosa non fosse insieme
all'altro – se l'altro non fosse –, il qualcosa non potrebbe esserne la
negazione; se il qualcosa non fosse negazione dell'altro non potrebbe essere
insieme all’altro, ma sarebbe identico ad esso. Che questa superficie sia
bianca significa che, all’interno di una certa totalità finita, questa
superficie è insieme a questo bianco; e questa superficie è un significare che
differisce dal (ossia non è il) significare in cui consiste questo bianco.
(Questa superficie è insieme anche al bianco di quest'altra superficie, ma in
una totalità finita diversa da quella che include questa superficie e il suo
biancheggiare).»
Ciò mostra come la totalità semantica sia sempre in vista
(vi è una relazione originaria come ben già illustrato ne La struttura
originaria del ‘58) finanche quando si pone la negazione di un significato.
Qui c’è una debole relazione con la totalità specifica del «∀x,
per ogni» nell’implicazione formale «∀x (P(x) → Q(x))»,
che come abbiamo visto contempla funzioni proposizionali che di per sé non sono
confacenti con la verofunzionalità. In ogni caso per motivi di spazio qui non
si entrerà nel senso della negazione ma si rammenta che per Severino la negazione
in senso ontologico è la modalità con cui l’identità si costituisce nella
differenza, nella relazione all’alterità, e non equivale mai a un passaggio al
nulla o all’annientamento, come invece presuppone la metafisica tradizionale
del divenire. Sottolineamo, in ogni caso, che in Severino, ogni relazione
(inclusa la congiunzione) tra enti non è mai una mera operazione logica, ma un apparire
originario, un costituirsi dell’essere-in-relazione (come espresso in Tautòtes
p. 152). Ad esempio, negare una congiunzione (A e B) equivale, in termini
ontologici, a negare la totalità unitaria costituita dal loro essere insieme
(la loro «coappartenenza») – ricordiamo che per Severino la congiunzione in
quanto «relazione» è «relazione originaria» quindi i congiunti non sono
isolabili e non sopraggiungono rispetto alla relazione di congiunzione. Non si
tratta semplicemente di affermare che «non A o non B» (come nella logica
classica, specificatamente nella legge di De Morgan), ma di negare che sussista
quell’intero apparire in quanto tale. Anche per tale motivo il dire severiniano
si discosta dal dire verofunzionale della logica classica. Nei testi
severiniani, si avverte che la logica classica fornisce strumenti potenti, ma
opera sempre «su» dei contenuti già dati. Severino invece interroga il senso
stesso dell’operazione di negazione, mostrando che, all’interno della struttura
originaria, la negazione «dei congiunti» significa rifiutare l’apparire stesso
di quella totalità, non solo l’affermazione alternativa dei suoi membri. Nel
dire severiniano negare qualcosa non è solo dire che non è vero, ma affermare
positivamente il suo contrario.
Tornano al contenuto e alla forma, è
solo nella misura in cui la «forma» manifesta una verità del contenuto
determinato, ovvero una relazione tra enti determinati che non può non
essere, che essa acquista uno statuto veritativo (e quindi non passibile di
verofuzionalità come avviene nel «passaggio» da implicazione formale a
materiale). Diversamente, resta sul piano dell’astrazione, valida sì, ma priva
della necessità fenomenologica che fonda la verità (intesa assolutamente
non come solo valore di un connettivo verofunzionale).
Il linguaggio formale della logica moderna è dunque, per
Severino, un linguaggio potente, ma in un certo senso cieco. Esso funziona, ma
non sa cosa significa veramente funzionare. Non vede che ogni funzione
logica – ogni proposizione, ogni implicazione, ogni identità – è possibile solo
perché vi è una struttura originaria in cui l’essente non può non essere, e
ogni negazione di tale struttura è essa stessa interna all’apparire dell’essere,
un apparire in cui appare anche la logica formale.
L’implicazione formale, che nella logica classica assume un
valore universale (non tanto in virtù della verità dei suoi termini, quanto
della forma stessa della connessione), è qui svelata nella sua dipendenza dal
contenuto ontologico. Per Severino, non basta che una connessione logica sia
formalmente valida; occorre che essa non contraddica il senso originario del
vero, ossia l’eternità dell’essente. Ciò implica che una forma logica è
fondata non solo nella sua coerenza interna, ma nel fatto che essa dica il
vero, cioè l’impossibilità che ciò che è, non sia.
Questa posizione comporta una revisione radicale del
concetto stesso di verità. Se nella logica tradizionale la verità è una
proprietà della proposizione in relazione al mondo (nella forma della
corrispondenza, della coerenza o della funzione di verità), nella filosofia
severiniana (e nella logica dialettica severiniana) la verità è innanzitutto la
manifestazione dell’essente nella sua identità necessaria. L’identità
formale, la deduzione, l’implicazione, la funzione logica, devono perciò essere
reinterpretate in funzione di questa struttura originaria e cioè non come
strumenti per costruire il vero, ma come tracce che devono riportare
all’atto con cui l’essere appare o testimoniare il vero.
Ne deriva che nel dire severiniano ogni forma è
già carica di contenuto, e ogni contenuto non è disponibile a essere
ridotto a forma, non diementicando che quel dire indica qualcosa che è oltre il
linguaggio stesso. La distinzione tra i due piani, pur necessaria nell’analisi,
si dissolve nell’esperienza filosofica del pensiero che ritorna alla struttura
originaria. L’implicazione logica non può mai prescindere dall’identità
dell’essente con sé stesso. E, in definitiva, anche il logos più puro – quello
della logica formale – si trova, se portato fino in fondo, a dover riconoscere
la necessità ontologica che lo fonda.
8 Sintesi dei risultati raggiunti e prospettive
Il percorso fin qui affrontato ha permesso di esplorare con
metodo la relazione tra la logica formale attraverso alcuni passaggi dovuti a
Bertrand Russell e la struttura dialettico‑ontologica di Emanuele Severino, con particolare
attenzione alla nozione di necessità.
In primo luogo, si è evidenziato come l’implicazione
materiale (A → B), nel quadro della logica proposizionale, sia una
relazione verofunzionale, dipendente dai valori di verità dei singoli
elementi. Essa sopporta paradossi e relazioni inconsistenti, essendo vera ogni
qual volta l’antecedente sia falso o il conseguente vero, senza richiedere
nessun legame concettuale tra A e B.
In contrapposizione, l’implicazione formale (∀x
(p(x) → q(x))) incarna una relazione necessaria,
strutturale e universale. Essa presuppone che il dominio degli elementi che
soddisfano la proprietà p sia interamente incluso in quello in cui vale
q, costruendo così un legame forte e non casuale. Questa relazione è coerente
con una forma di necessità logica, ma non ancora con la nozione di
necessità ontologica di Severino, sebbene ne ricalchi la forma, la cui analisi
può essere utile sul piano metodologico.
La riflessione severiniana ha permesso di spostare
l’attenzione verso la struttura originaria dell’essere, nella quale
forma e contenuto si incontrano: e dove il pensiero non è strumento di
costruzione, ma linguaggio che raccoglie e mostra ciò che già è ed è
necessariamente. In tale contesto, l’implicazione formale si presta a essere
una «figura logica» che si avvicina al modello di relazione necessario, ma non
basta. Ciò che conta non è solo la forma, ma che questa in relazione a
un contenuto essenziale e determinato, ovvero un essente che non può non
essere ciò che è.
Il passaggio sul piano dell’identità originaria ha
mostrato che l’identità logica simmetrica (x = y = y = x) diviene significativa
solo se riversata nel contesto ontologico (dove il logos è in identità
con il fenomenologico): la simmetria dell’identità formale diventa allora la
dichiarazione di un’identità concreta, ovvero il riconoscimento che l’essere di
A è identico all’essere di B perché entrambi manifestano l’identità di ciò che
non può essere diversamente, pena l’impossibile concretarsi del nulla.
Pertanto, le riflessioni condotte hanno manifestato un
duplice movimento filosofico logico:
- Da
Russell: il passaggio dalla verità verofunzionale alla validità
universale, dalla contingenza alla forma necessitante tramite
l’implicazione formale.
- Da
Severino: la radice ontologica della forma, dove necessità è l’essere
che non può essere diversamente, e la logica riaccoglie ma non genera ciò
che mostra (apparire).
In prospettiva, questo confronto apre ad alcune linee di
sviluppo:
- Una teoria
del significato che intraveda la logica come strumento dall’interno
del mondo e del senso, e non più come costruzione astratta.
- Un’ontologia
dell’inferenza, in cui ogni atto inferenziale è manifestazione di un
destino dell’essere (è una modalità dell’apparire).
- Una
rivalutazione del linguaggio formale nei contesti filosofici, non come
astrazione sterile, ma come «portale» verso la necessità
dell’essere.
Si accenna, in ultimo, che la verofunzionalità in un senso
generale e ampliato è il sale della prassi scientifica e la possibilità di
avere asserzioni vere e false rende possibile la falsificabilità delle teorie
scientifiche stesse, permettendo a Karl Popper di stabilire un criterio di
demarcazione basato sulla falsificabilità e non sulla verificabilità di una
teoria scientifica. Di fatto, secondo Popper, una teoria è scientifica se e
solo se è potenzialmente falsificabile, ovvero se può essere confutata da
osservazioni o esperimenti. In altre parole, una teoria scientifica deve
poter essere messa alla prova e potenzialmente dimostrata falsa. Qui
l’implicazione formale ci è servita per mostrare come si può configurare lo
schema di una deduzione necessaria e non falsificabile e come questo schema
possa aiutare a compiere un passaggio metodologico nello studio del pensiero di
Emanuele Severino e della sua logica dialettica.
Niente di definitivo, ma si spera utile per chi provenendo
dal mondo della logica formale e degli enunciati verofunzionali voglia
avvicinarsi ad un dire che è completamente differente ma che può essere
saggiato passando per la comprensione dell’importanza dell’implicazione formale
come descritta da Bertrand Russell ne I principi della matematica. Tale
trattazione non esaurisce tutti i punti essenziali dell’argomento che rimangono
una questione, comunque, di carattere aperto nella prassi di ricerca e sono in
altra maniera ben trattati in numerosi altri testi dedicati al senso della
logica dialettica e delle differenze con la logica formale. Si rimanda,
riguardo tale argomento, a La dialettica della struttura originaria di
Francesco Berto (Berto, 2003), noto filosofo conoscitore sia della logica
classica e dei suoi fondamenti sia della logica dialettica.
Si conclude con un post scriptum.
Ci sono autori che si interrogano sulla possibilità di
formalizzare la logica dialettica – in questo scritto appena accennata.
Personalmente ritengo che essa sia non formalizzabile, altrimenti i libri
sull’argomento sarebbero simili ai libri sulla logica formale, un coacervo di
formule che identificano un sistema, il quale in linea di principio (al netto
di problematiche autoreferenziali legate al noto «problema dell’arresto») è
meccanizzabile. La logica dialettica vive nel linguaggio ovvero in un dire che può
essere «piegato» a seguirne i dettami e che, in quanto dire, non è esente dal
«contraddirsi», ma rimane il miglior «sistema formale» sufficientemente fluido
dal punto di vista semantico con cui si può tentare di indicare ciò che è oltre
il linguaggio. I modelli linguistici di grandi dimensioni alla base degli
attuali sistemi di Intelligenza Artificiale generativa approssimano
grossolanamente la produzione di un dire che appare dialettico poiché, essendo
addestrati su grandi moli di dati testuali (e multimodali), risultano
produttori di simboli le cui relazioni semantiche da noi riconosciute come tali
appaiono sufficientemente fluide da sembrare che siano capaci di produrre
significati secondo una logica di tipo dialettico.
Bibliografia
Russell, B.
(1903). The Principles of Mathematics. London: George Allen & Unwin.
Ed. it.: Russell, B. (1970). I principi della matematica. A cura
di G. Gherardi, Milano: Longanesi.
Russell, B.
(1919). Introduction to Mathematical Philosophy. London: George Allen
& Unwin.
Ed. it.: Russell, B. (1988). Introduzione alla filosofia matematica.
A cura di G. Boni, Milano: Il Saggiatore.
Severino, E. (1958). La struttura originaria.
Brescia: La Scuola.
Riedizione: Severino, E. (1981). La struttura originaria. Milano:
Rizzoli BUR Filosofia.
Berto, F. (2003), La dialettica della struttura originaria,
Padova: Il Poligrafo
Severino, E. (1995). Tautótes. L’identità. Milano:
Adelphi.