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mercoledì 6 marzo 2024

Quando si pretende di voler comprendere il senso di tutto

 


Quando si pretende di voler comprendere il senso di tutto ciò, è proprio allora che si ingenera quella profonda spaccatura che, se da una parte divide il mondo tra volontà e accadimento lascivo e impersonale dall'altra quella stessa spaccatura ci pone d'innanzi ad un precipizio facendoci convenire alla necessità di raggiungerne il fondo. E se decidiamo di porre la "domanda" ecco che ci vediamo gettati in quell'abisso in una caduta infinita dove l'unico modo per stare fermi è l'abbracciare l'annientamento dei sistemi di riferimento. Così, l'accettazione di un qualsivoglia codice atto a generare la pellicola del senso con cui conserviamo un mondo è quella prerogativa per la quale ogni caduta è inesorabilmente destinata a non raggiungere quel fondo. Ora immaginiamo che la vita nella sua forma diveniente e ordinaria sia come un navigare senza meta in un oceano dalle sembianze infinite. La domanda, allora, si configura come il raggiungimento di un limite dove quell'infinito, allora tanto manifesto quanto vero, mostra il suo lato finito. Abbiamo raggiunto il confine di quell'oceano e ci accingiamo ad attraccare a quella banchina che ha l'aura della salvezza come una certezza. È nel momento stesso in cui mettiamo il piede sulla terra, mentre la barca dondola tranquilla sotto un cielo azzurro di certezze posticce, ci accorgiamo che quel confine è davvero tale, una linea come di mattoni dell'ampiezza di un piede, al di là della quale vi è quel fondo nascosto da una coltre di nebbie sconfinate. Ora, giunti al muro del senso, quel senso che come vento vi ha trasportato in quell'oceano che era la vita, la scelta ternaria è tornare indietro e riaffidarsi a quel vento, camminare come un equilibrista lungo l'angusto confine, oppure lanciarsi nell'altrove di quelle nebbie lasciandosi cadere indefinitamente. È lì ritti su quel muretto stretto con l'oceano sterminato ma finito alle spalle e il non ancora definito d'innanzi che si genera la vertigine fonte di ogni autentica ricerca di senso. Ma quella stessa vertigine si configura come l'apparenza di quel fondo in una forma astratta, per alcuni numinosa e foriera di salvezza, per altri nientificata e foriera del nulla. Quando si raggiungono i confini del senso attraverso la domanda è allora che l'uomo trascende ovvero si lancia giù nell'abisso. Tale trascendimento però nasconde delle insidie, poiché come si diceva, la necessità di avere dei punti fermi con cui mitigare l'angoscia della vertigine, è la constatazione stessa dell'essere in caduta libera. Così l'uomo si barcamena tra certezze finite e impersonali e la vertigine dell'essere gettato al di là di quel confine, nella necessità di punti fermi sì forieri di senso ma latori di angoscia e solitudine. Ma allora quel muretto che divide l'oceano dalle nebbie abissali - l'apparente infinito nel finito - dall’indefinito e illimitato è quel luogo originario dove ogni Io si trova a compiere la scelta necessaria. Si può scegliere di non scegliere, di evitare di porsi la domanda e vagare nell'astratto finito che è quell'oceano in cui divenne la nostra vita ordinaria oppure saltare giù, trascendere nella consapevolezza straordinaria che quel fondo semovente è solidale a noi stessi in caduta e quindi non è raggiungibile di per sé. Quella via, invece, lungo il confine sebbene sia ancora quella terra ferma sotto i nostri piedi si configura un cammino finito nell'illimitato, come lo è in fondo il vagare su una circonferenza tracciata nello spazio euclideo. In questo sogno ricordo vividamente che mi sono lanciato giù e ora, da sveglio, sento ancora e costantemente della caduta quella vertigine angosciosa e purtuttavia sublime.
 
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Testo adattato da un sogno di qualche tempo fa...
 

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