Il filosofo Carlo Sini, in una intervista in cui commenta la filosofia di Emanuele Severino afferma (Sini, 2019): «Il pensiero di Severino, che arriva a negare il divenire delle cose, è contro il senso comune, ma la filosofia stessa nasce contro il senso comune, perché pone problemi laddove c’è l’ovvietà del nostro vivere quotidiano.» Sini ci ricorda che per Severino la questione non è negare l'evidenza che le cose si muovano, ma si tratta di «spiegare» perché si muovono, cioè, chiarire perché quella cosa che chiamiamo «divenire» sia giustificata dal fatto che il divenire si osserva. Severino, infatti, domanderebbe: «Cosa si muove?». Lo stesso si potrebbe dire per il non essere. Il filosofo bresciano domanderebbe: «tu lo vedi il non essere?», «Lo vedi il nulla?», «Lo vedi il niente?» (Sini, 2019).
Il senso del vedere che conviene alle domande filosofiche appena espresse, non ha nulla a che fare, con un vedere empiricista, eppure Severino ci esorta a domandarci se davvero vediamo il nulla oppure il trasformarsi delle cose all’interno del divenire. In questo scritto si tenterà di frapporci in quella zona interstiziale situata tra il dire Severiniano relativo alla struttura originaria com’è in sé e quel dire che è il prodotto di un intelletto – fuori dal comune – che di questa struttura ne ha avuto una intuizione concreta che, successivamente, è stata formalizzata tramite quel dire che è il linguaggio. Il percorso che qui si propone riguarderà i concetti di “concretezza” in Severino, di capacità intellettive e di dimensione visiva del pensiero teoretico in filosofia ragionando sulla storia (vera) di un uomo che non riusciva a dimenticare e che fu reso noto dallo scienziato sovietico Aleksandr Lurija in un famoso testo dal titolo “Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla (Lurija, 1979).
La concretezza
Chiunque si approssimi al pensiero di Severino, a partire dalla struttura originaria – definita nell’omonimo libro (Severino, 1954) dallo stesso «essenza del fondamento» e «struttura anapodittica del sapere e cioè lo strutturarsi della principialità, o dell'immediatezza» – non può non percepire in tutto il testo una necessità di concretezza, ma una concretezza del tutto particolare. Tale concretezza può essere saggiata in vari modi e a diversi livelli di dettaglio. In termini generali, a Severino viene spesso attribuito il «monismo ontologico» ma, al di là delle rigide classificazioni, egli a più riprese ha espresso la sua abissale distanza da Martin Heidegger al cospetto dell’«essere». Se per il filosofo tedesco l’essere è il lasciar essere l’ente (e il tornare a nascondersi) e la filosofia occidentale ha dimenticato la differenza tra essere e ente (differenza ontologica), per Severino tale differenza, posta in questa maniera, non ha un vero statuto ontologico. Come ci ricorda Salvatore Natoli in una intervista a commento del pensiero del Nostro (Natoli, 2021): «[Nella concezione severiniana] l’essere, ossia gli enti nella loro totalità, sono eterni, preservati sempre e per sempre dal nulla ed è questo il senso del ritorno a Parmenide». Natoli continua: «Però a differenza di Parmenide dove l’essere è formale, per Severino l’essere è concreto». Tornando a Heidegger, mentre il quest’ultimo all’interno della differenza ontologica giunge ad affermare che l’essere è il nulla (das nichts), per Severino L’«essente» è tutto ciò che non è un nihil absolutum. Quindi tutto ciò che è essente è essere e viceversa. Per Severino il problema più grande della metafisica classica non è nella confusione tra essere e ente messa in risalto da Heidegger in “Essere e tempo”, bensì nella temporalità dell’essere aristotelico-platonica, cioè, concependo l’essere sé dell’essente come temporalità ovvero quando si afferma (Aristotele, IV sec. a.C): «è necessario che l'essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è». In definitiva, mentre il nichilismo di Heidegger consiste nell’identificare l’essere con il niente, il nichilismo aristotelico è legato alla persuasione dello Stagirita che c'è un momentoin cui l'essere non è. Si può asserire, quindi, che tutta la teoresi di Severino ha orbitato intorno all'asseverazione dell’eternità degli essenti – anche nel loro apparire – e alla negazione dello statuto ontologico del divenire, quest’ultimo inteso come quanto di più lontano c’è dalla (dal destino della) verità. Infatti, per il filosofo Bresciano la scelta del termine «destino», lungi da accezioni fataliste, è nel suffisso “-stino” che per tramite del corrispondente verbo greco significa «stare» (mentre il «de» assume un significato potenziante). Quindi «destino» è lo «stare innegabile ed eterno che sta e non cede». Tornando alla differenza ontologica, per Severino essa si conforma alla differenza tra l’essere che accade in quanto astrattamente separato dal Tutto, quello stesso essere che è eternamente e concretamente compreso nel Tutto. Egli ci dice che (Severino, 1972) «La manifestazione astratta dell’essere provoca una differenza tra l’essere come esito della manifestazione astratta, e lo stesso essere, in quanto concretamente avvolto dal tutto; ma i limiti di questa differenza sono attualmente imprevedibili o, meglio, lasciano prevedere una regione sterminata aperta all’indagine speculativa». In definitiva, Severino ha ben chiaro dinnanzi a sé la differenza tra concreto e astratto. Per il filosofo «essere ente» significa essere un certo «esser-sé»: la penna è penna, la carta è carta, eccetera. «Esser sé è insieme il proprio non essere altro»: penna è penna in quanto è insieme non foglio, non tavolo, non cielo e non-niente. Per Severino se non si tenesse fermo questo, non vi sarebbe alcuna penna. Non la si potrebbe nemmeno pensare e dire. Nell’introduzione all’ultima edizione della struttura originaria Severino si sofferma molto sul dire e anche qui si ravvisa un intento di concretezza, specialmente quando asserisce che è necessario porre l’identità tra soggetto e predicato dove in «la lampada è accesa» quell’«è» è la vera essenza dell’essere cosicché l’ultima affermazione è da dirsi come «la-lampada-è-accesa». Il dire incontraddittorio, per Severino, è dunque il dire che afferma l’assoluta identità del “soggetto” e del “predicato”: è la tautologia originaria che dice l’esser sé dell’essente, il suo essere altro dal proprio altro, il suo essere altro dal nulla, il suo essere eterno. Per Francesco Berto, se si potesse riassumere l’intera Logica di Hegel con una semplicissima proposizione logica (Berto, 2000) si potrebbe affermare che «il negativo è insieme anche positivo», mentre se si conducesse tale gioco con Severino si potrebbe asserire che «il positivo si oppone al negativo». Per Berto tale proposizione esprime una dialettica che si pone come una teoria semantica che afferma la relazione del significato al suo opposto, e quindi all’intero semantico (semantica olistica). L’opera della dialettica, così intesa, consiste anzitutto in una critica dell’isolamento semantico, che per Severino e inteso come concetto astratto dell’astratto ed è al fondamento della contraddizione presente nella logica formale nel suo essere intimamente una logica isolante. Per inciso, la relazione (semantica) è il nesso dialettico necessario fra un qualunque significato «a» e la sua negazione infinita «non-a». Inoltre, nel dire «l’esser sé (e il non esser l’altro da sé) del significato» la determinatezza del significato coimplica la determinatezza dell’intero campo semantico – olismo semantico (Berto, 2000).
Filosofia Teoretica e dimensione del vedere
Per Carlo Sini (Sini, 1992) l’espressione «filosofia teoretica» ha la sua radice nella lingua greca e allude ad un sapere (sophia) incentrato sul vedere o comunque su un atto di visione (theorein). Già la sapienza dei misteri elusini culminava in una esperienza visionaria (epopteia), come anche nella festa dionisiaca dove si facevano esperienze visivo-allucinatorie e i posseduti della frenesia bacchica arrivavano a vedere l’oggetto bramato ovvero il Dio resosi manifesto all’areton, cioè alla visione indicibile. Sini ci dice che queste forme arcaiche della sapienza connesse al vedere risalgono all’alba dell’umanità e alle simbologie dell’uomo preistorico. Secondo una teoria interessante proposta negli anni Settanta e per alcuni aspetti controversa lo psicologo Julian Jaynes riferisce che lo scarso sviluppo cognitivo dell’uomo preistorico (rispetto al presente) era tale per cui egli viveva come in una realtà allucinata dove l’attività cognitiva nella vita quotidiana era dominata da un proliferarsi di immagini mentali dal forte carattere visivo a scapito di una capacità di astrazione che sarebbe stata conquistata in fasi successive (Jaynes, 2002). Per Jaynes ne è prova non solo il significato dei termini all'interno dei miti che non hanno niente a che vedere con entità astratte, bensì con entità corporee (e.g., il «tallone» di Achille) ma anche con il rapporto dell’uomo arcaico con la morte - tale interpretazione è stata ripresa ampiamente anche da Umberto Galimberti ne “Il corpo” (Galimberti, 1983) -, dove i defunti continuavano ad essere alimentati e curati poiché evocatori di immagini e di moniti (come se fossero ancora in vita). In estrema sintesi, per Jaynes la distinzione tra realtà e allucinazione operata da noi esseri umani nell’oggi non doveva essere così evidente all’uomo preistorico, il quale se fosse nel presente sottoposto ad una diagnosi psichiatrica sarebbe classificato come schizofrenico e in preda ad una psicosi allucinatoria (da qui anche l’utilizzo delle icone – come fonti di immagini evocatorie – nelle tradizioni religiose arcaiche). Sini, dal canto suo, ci dice che ad un certo punto nella storia, questa dimensione del vedere (che è alla radice della filosofia teoretica) ha mutato la sua qualità e tale mutamento ha raggiunto l’apice in Platone con il mito della caverna e soprattutto con la distinzione tra vedere sensibile e vedere intelligibile, con cui «istituiva le due nozioni contrapposte e correlative di corpo sensibile dotato di organi e funzioni e di anima intelligente o mente razionale». Dall’anima di Platone scaturiscono i concetti di forma (morphe) e di essenza (ousia). La forma diveniva quell’invariante strutturale nella mutevolezza degli eventi dando una base alla definizione logica di oggetti e eventi, fornendo una base intesoggettiva e razionale. Sini asserisce che (Sini, 1992) «questa capacità di cogliere spiritualmente la forma è intesa da Platone come atto visivo e perciò egli chiamò “idee” le forme» (eidos, dalla radice vid-, donde il latino video, da qui anche il significato di «memoria eidetica», cioè la capacità naturale di visualizzare mentalmente le immagini dopo averle viste solo per pochi istanti). In tale mondo Platonico delle idee si genera la forma logica, coerente e categoriale in cui si suddividono tutti gli esseri e le cose, cioè come un ipotetico essere reale delle cose in quanto esse vengono prima pensate concettualmente. L’episteme della scienza moderna – passando per il dualismo Cartesiano – origina da qui. In definitiva, (Sini, 1992) «per Platone Pensare in senso filosofico equivale dunque ad intuire cioè a vedere spiritualmente l’essenza o l’idea delle cose reali e a esprimerla concettualmente in definizioni rigorose». In estrema sintesi, possiamo dire che Aristotele continuò su questa strada e, se vogliamo fermarci qui, potremmo ribadire con Alfred North Whitehead che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone» (in Sini, 1992). Quindi la filosofia e, specificatamente la filosofia teoretica, è connessa con una certa dimensione del vedere e se tale vedere può essere concepito come una forma di astrazione, per Platone esso assume uno status reale, in quanto è proprio il mondo delle idee a conferire alla realtà la propria natura.
L’uomo che non dimenticava nulla
Nella storia del pensiero e nella scienza, specificatamente nei resoconti biografici, si annoverano spesso grandi capacità intellettive e mnemoniche. Il matematico Carl Friedrich Gauss era noto per la sua intuizione geometrica e la sua capacità di visualizzare problemi matematici in modo chiaro. Si dice fosse in grado di effettuare calcoli complessi senza dover scrivere passaggi intermedi e che fosse in grado di risolvere mentalmente equazioni e problemi. Il fisico teorico Richard Feynman è noto per il suo approccio intuitivo e immaginativo alla fisica. Egli utilizzava spesso rappresentazioni visive per comprendere i fenomeni fisici complessi e sviluppò i cosiddetti «diagrammi di Feynman», strumenti visivi che rappresentano le interazioni delle particelle subatomiche. Albert Einstein era famoso per la sua capacità di visualizzare concetti fisici astratti e complessi attraverso pensieri e immagini mentali. Ha spesso descritto come si «giocava» con idee e immagini nella sua mente per comprendere le conseguenze della relatività e della meccanica quantistica (Gedanken Experiment). Einstein racconta che (Einstein, 1979), sedicenne, si era immaginato a cavallo di un raggio di luce. Egli immaginò che se si potesse tenere il passo con il raggio la luce apparirebbe ferma, con i suoi campi elettrici e magnetici congelati nell'immobilità. Ciò risultava impossibile per la descrizione elettromagnetica della luce da parte delle equazioni di Maxwell. Anche Benoît Mandelbrot, colui che che portò alla ribalta gli oggetti frattali in matematica e spinse per il loro studio in natura, riferì che aveva una grande memoria eidetica e capacità immaginativa nella soluzione di problemi matematici, soprattutto geometrici.
Si può asserire con una certa sicurezza che tali capacità immaginative e modalità visive utilizzate per risolvere i problemi non ostacolarono questi grandi pensatori, anzi. Non fu così per Solomon V. Šereševskij, il giornalista e in seguito mnemonista russo, definito dal neuropsicologo sovietico Aleksandr Lurija negli anni Sessanta dello scorso secolo «l’uomo dalla memoria apparentemente illimitata» (Lurija, 1979). Noto come Š, Šereševskij apparentemente conduceva una vita normale e leggermente sottotono. Le sue doti mnemoniche furono studiate precocemente da numerosi scienziati sovietici come ad esempio lo psicologo Lev S.Vygotskij. Tuttavia, fu Lurija che lo seguì per oltre trent’anni accorgendosi che Š era capace di ritenere a memoria per anni interi libri, anche in lingue a lui non note. Lurija ci racconta che nei primi anni che aveva conosciuto Š, il quale non era ancora ben consapevole delle possibilità date dalle sue capacità mnemoniche – solo dopo egli divenne anche uno mnemonista che si esibiva –, le sue doti mnemoniche erano basate su una potentissima capacità di generare immagini mentali a seguito di stimoli ma che tali immagini erano pressocché forme e linee miste a immagini del suo vissuto utilizzate all’uopo per ritenere le informazioni ascoltate o osservate. Š non era dotato solo di una capacità immaginativa mai vista prima ma anche di capacità sinestesiche, le quali partecipavano al processo di memorizzazione. Così Š era capace di imparare lunghi testi, lunghe catene di numeri, sequenze di segni e ritenerle anche per quindici anni. Lurija capì che la capacità di memorizzazione poteva essere minacciata da due elementi: fonti di rumore e la velocità con cui si recitava un testo o una catena di numeri. Š riferì che le fonti di rumore si tramutavano come in macchie, linee caotiche o nuvole minacciose che andavano a sporcare quelle immagini mentali che lui si andava creando. Al contempo, se leggeva velocemente o ascoltava la lettura di un brano a velocità sostenuta, la sua fatica a ritenere i contenuti derivava dal non riuscire a formulare delle chiare immagini mentali in tempi brevi cosicché esse finivano per accavallarsi ed inficiare la sua memoria. Lurija si accorse, dopo numerosi esperimenti, che il più delle volte le visioni di Š non erano strettamente collegate al significato comune del testo, anzi. Š doveva compiere un grande sforzo per rendere coerenti le sue immagini e se vi riusciva era in grado di risolvere problemi matematici, anche complessi, immaginando narrativamente storie, personaggi e dettagli, elementi che nessun uomo normale utilizzerebbe rispetto ai metodi logico-formali normalmente utilizzati in questi casi. Spesso però la generazione di tali immagini era incoerente cosicché Š non riusciva a comprendere il significato di lunghe frasi. Lurija sottopose in trent’anni Š a numerosi test cognitivi e mnemonici e si accorse che più ciò che leggeva o gli veniva letto aveva un carattere astratto o analogico più Š non era in grado di comprendere il significato. Così alla lettura di una poesia Š si perdeva nei dettagli immaginando vivamente scene, molte della sua infanzia ricche ma poco significative per il contesto, che nella poesia era di tipo addirittura simbolico. Lurija cercò per anni di inquadrare la personalità di Š, che descrisse come un uomo che al prossimo poteva sembrare leggermente tardo e che non aveva raggiunto grandi obiettivi nella vita poiché «era come se fosse sempre in attesa di qualcosa». Š stesso ravvisava che questa grande potenza immaginativa lo portava quasi a sdoppiarsi, specialmente quando era bambino e suonava la sveglia per la scuola. Egli rimaneva a guardare l’orologio, che continuava a segnare le sette nonostante le sgridate dei genitori, e immaginare che un altro lui si apprestava a fare la toilette, vestirsi, fare colazione, varcare la porta di casa ed essere accompagnato a scuola (tutto immaginato nei minimi dettagli). Lurija senza pretesa di conclusività ci invita a concepire Š non solo come una persona dalla grande dote mnemonica e sinestesico-immaginativa, ma anche come un uomo con molte difficoltà e per certi versi votato all’inettitudine. Š rispetto alle persone normali ricordava anche gli episodi della primissima infanzia e la maggior parte delle immagini che gli comparivano quando memorizzava erano relegate a quel tempo. Per Š la lettura di romanzi poteva diventare un problema poiché se un luogo veniva nominato in un romanzo ed un altro luogo simile era descritto in un altro romanzo, nella sua mente i personaggi dei romanzi si incontravano e si mischiavano tanto da non riuscire a capire quale romanzo egli stava portando alla memoria. Non solo, anche la sinestesia era un disturbo ed essa interferiva col significato delle parole cosicché una parola che magari descriveva una situazione negativa poteva essere percepita da Š, anche attraverso sensazioni cutanee, colori o di gusto, come fortemente positiva così da interferire con i processi basilari di comprensione. Un altro fatto sorprendente che Lurija racconta in dettaglio erano le capacità di Š di governare alcuni processi fisiologici con la mente come il battito cardiaco e la temperatura degli arti. Ma la cosa più sorprendente – e utile per i ragionamenti qui proposti – è che la propensione di Š di tradurre tutto in immagini lo rendeva incapace alle astrazioni. I più grossi problemi, infatti, si avevano quando l’informazione non poteva essere trasformata in immagini. Š sosteneva di riuscire a comprendere solo ciò che vedeva chiaramente e concretamente nella sua mente. Lurija sottopose Š a concetti astratti, per esempio, elaborati dall'umanità nel corso di millenni per designare relazioni complesse, sapendo bene che persone normali sono in grado di assimilarli anche senza vederli, mentre Š reagiva in maniera peculiare. Ecco un passo con le parole di Š (Lurija, 1979):
«"Eternità" è ciò che è sempre stato così..., ma cosa c'era prima di "così"? e dopo? cosa ci sarà? ... No, è impossibile vederlo...», «Per afferrare a fondo un significato, bisogna vederlo. Ecco, per esempio, la parola "niente": io l'ho letta, è molto profonda. Penso sia meglio materializzare questo "niente" e perciò lo vedo, è qualcosa... Per capirne il senso devo vedere. Mi rivolgo a mia moglie e le chiedo: "Che cos'è 'niente'?". "E' niente di niente", mi risponde. Ma per me è diverso: io, il "niente" lo vedo e lo sento che non è così anche per lei. Mi rifaccio alla nostra logica, elaborata in base a una così lunga esperienza, e vedo come si è svolta questa elaborazione: dobbiamo dunque fare riferimento alle nostre sensazioni... Se appare il "niente", vuol dire che è qualche cosa… A questo punto, vi sono ancora delle difficoltà: Quando si dice, ad esempio, che l'acqua è incolore, io ricordo quella volta che mio padre dovette segare un albero sul fiume Bezymjannaija perché ostacolava la corrente... Comincio a pensare che cos'è il fiume Bezymjannaja [Il termine significa letteralmente «innominato»]: esso non ha un nome ... Quante immagini superflue per una sola parola! ...».
«E’ "qualcosa": per me è come una nubecola di vapore, densa, con un colore preciso, simile a quello del fumo. "Niente" è una nubecola più rarefatta, perfettamente trasparente e quando provo ad afferrare le particelle di questo "niente", mi restano in mano minutissime particelle di... "niente"».
Š nel riferirsi a tali questioni era solito appellarsi «ai “maledetti” problemi derivanti dall'inconciliabilità fra concretezza e astrazione, [che] assediano l'adolescente, che, perplesso, è costretto a compiere enormi sforzi per sciogliere così acute contraddizioni» (Lurija, 1979). Lurija – riprendendo J. Piaget – ci dice che quella capacità di risolvere il tutto in immagini complete si perde velocemente durante lo sviluppo ed essa viene sostituita «da un modo di pensare assai più propenso all'astrazione, il ruolo delle immagini evidenti passa in secondo piano rispetto a quello dei significati convenzionali delle parole, il pensiero diventa logico-verbale e le rappresentazioni concrete finiscono con il localizzarsi alla periferia della coscienza e lì restano quando vengono alla ribalta concetti astratti» (Lurija, 1979).
Conclusione
Lurija ribadisce che Š fu un caso sorprendente dove il potenziamento senza precedenti di una funzione mentale quale la memoria permetteva di comprendere alcuni aspetti della personalità e le modalità di ragionamento peculiari. Se a Š si presentavano concetti astratti (e.g., filosofici) egli non riuscendo a conferirgli una realtà immaginativa vedeva linee, punti, spruzzi di rumore, e nuvole che si compenetravano, come quando gli fu chiesto di immaginare l’«essere» contrapposto al «niente». Sicché Š non era capace di immaginare il nulla se non con un oggetto del pensiero, una nuvoletta in questo caso, quindi con qualcosa di concreto. Non solo per Š il concreto e l’astratto erano sintomo di contraddizione, potendo ragionare solo in termini concreti. Tale aspetto risulta molto interessante al cospetto del pensiero del Maestro Severino. A scanso di equivoci nei presenti ragionamenti non si sta accomunando assolutamente Š a Severino tout court e men che meno si vuole asserire che Severino non abbia capacità di astrazione, anzi. Ciò che si intende sottolineare ed analizzare è solo la concretezza del ragionamento di Severino che per certi versi assomiglia alla necessità di concretezza di Š. Ciò porta a ritenere che pensatori del calibro di Severino abbiano una forte capacità mnemonica e eidetica che, opportunamente controllata ed unita al genio, permette di raggiungere delle profondità di ragionamento e di coerenza interna senza precedenti così da realizzare e porre in relazione con facilità, in una dimensione visiva confacente alla radice originale della teoresi, concetti astratti e concreti. Inoltre, seguendo i ragionamenti di Lurija Š aveva mantenuto quella capacità di ragionare in concreto che forse è un punto di forza di pensatori e scienziati di calibro. Approcciarsi alla lettura di Severino, ad esempio “La struttura originaria”, significa prepararsi ad uno sforzo mnemonico degno di nota, poiché durante i suoi ragionamenti il filosofo bresciano ci invita a seguire periodi che si snodano dipanando una certa complessità logico-sintattica con continui autoriferimenti, cosicché il lettore è costretto a ritenere a memoria lunghe catene di ragionamento, che probabilmente per Severino possedevano un carattere di immediatezza e quindi di concretezza. Ne dà prova lo stesso Carlo Sini che durante la serata “L'Occidente e il Destino” (Sini, 2015) dedicata al pensiero di Emanuele Severino, nel leggere alcuni passi del libro del compresente Severino “Dike”, non solo omaggia lo stesso con parole lusinghiere ma ammette che nell’approcciarsi ai concetti severiniani egli ha difficoltà a seguire lo snocciolarsi del discorso, tuttavia dopo numerosi sforzi non si può non dargli ragione. In questo elaborato si invita a considerare il frutto della teoresi di Severino come una particolare inclinazione intuitiva, che va a comporre le sue ampie doti intellettive, per la quale la coerenza – Berto lo definisce un logico di prim’ordine (Berto, 2000) – è chiara e cristallina come un piano geometrico dove una serie di figure complesse si incastrano l’un l’altra alla perfezione e magari colori e sfumature sono il grado di astrazione con cui è necessario convenire a tali forme, cosicché, come in un puzzle, per Severino due tessere non sono compatibili non solo per la loro forma ma anche se si trovano a possedere sfumature differenti. Quel puzzle di essenti eterni, che Severino ha tutt’ora dinanzi agli occhi della sua mente e che con il linguaggio egli si sforza di indicarci, è la forma logica e immutabile del suo pensiero che combacia in maniera esatta e coerente con la struttura originaria, il fondamento incontrovertibile e anapodittico del tutto.
___________________________
Bibliografia
https://www.raicultura.it/.../Carlo-Sini-Metafisica...(2019)
E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, 1954
Aristotele, De Interpretatione 9, 19 (IV sec. a.C.)
Salvatore Natoli, intervistato in occasione del Convegno Sul fondamento della conoscenza, organizzato dall'ASES (Associazione di Studi Emanuele Severino), (2021)
E. Severino, Essenza del nichilismo, Paideia, 1972, p. 118
F. Berto, Severino e la logica Dialettica, La dialettica come teoria semantica e come estensione della logica formale, http://www.ousia.it/content/Sezioni/Temi/Tesi/Severino.doc(2000)
C. Sini, Filosofia Teoretica, Jaka Book, 1992
J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l'origine della coscienza, Adelphi, 2002
U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, 1983
A. R. Lurija, Viaggio nella mente di un uomo che non dimenticava nulla, Armando, 1979
A. Einstein, Autobiografia scientifica, Boringhieri, 1979
Sini, serata omaggio “L’Occidente e il destino”, https://www.youtube.com/watch?v=pUbDF5SZtpU(2015)
Nessun commento:
Posta un commento