Oggi, in preda alla febbre alta pre-natalizia, provo a mettere insieme alcuni pezzi e a tentare una spiegazione del perché un ingegnere, al quale piace ragionare (e non solo funzionare), è più facile che accolga la filosofia del maestro Emanuele Severino, rispetto ad un matematico puro o un fisico “vecchia maniera”. Nessuno si senta colpito davvero nel profondo; quanto andrò a dire sono generalizzazioni (astrazioni) che andrebbero poi valutate caso per caso.
L’ingegnere. L’ingegnere deve innanzitutto far funzionare qualcosa. Se questo qualcosa non esiste lo crea secondo volontà usando le leggi che la scienza in un dato momento mette a disposizione. L’ingegnere per far funzionare la cosa crea un “modello” con dei parametri da ottimizzare, ma la maggior parte dei suoi modelli è un miscuglio di leggi scientifiche, assunzioni empiriche e assunzioni ad-hoc (con nessuna vera aderenza alla realtà materiale) - si pensi alla simmetrizzazione delle equazioni di campo di Maxwell è il problema dei monopoli magnetici. L’ingegnere normalmente ottimizza i parametri del modello scelto o creato ad-hoc secondo una funzione obiettivo o di costo che spesso ha poco o nulla a che fare con la realtà materiale (“prestabilita”).
Il matematico puro. Il matematico, che non vuole essere né fisico né ingegnere, non si interessa alla realtà materiale ma solo all’armonia delle strutture numeriche che sa bene essere astrazioni. Al matematico non importa se il suo gruppo di rotazioni appartiene ad uno spazio euclideo tridimensionale oppure ad un iperspazio con una norma semi-sconosciuta. Semmai gli importa solo in quanto il problema è più generale (più astratto), ma non perché quello spazio sembra essere isomorfo allo spazio esperito quotidianamente. Egli non si incarica di validare empiricamente il suo modello, se non formalmente. Il suo mondo è composto da assiomi, postulati, definizioni, dimostrazioni e da una metodologia accompagnata dalla logica formale o isolante. Egli si muove tra le forme pure, e se non si fa troppe domande sul “fondamento”, accetta gli assiomi come autoevidenti e procede oltre. Se incontra Gödel e i suoi teoremi inizia a diventare sospettoso, ma lo stesso Gödel lo rassicura dicendogli che quel sistema sufficientemente potente in cui appare la contraddizione può essere gödelizzato, salvandolo almeno all’infinito. Poi il matematico pensa: gli aerei progettati dagli ingegneri con l’aritmetica decollano e atterrano, quindi questa benedetta matematica funziona.
Il fisico vecchia maniera. Se troppo “vecchia” tale maniera, egli ritiene che le equazioni che sta formulando siano le equazioni con cui Dio (non per forza il Dio religioso) governa il mondo. Se il fisico è più giovane non si cura di un Dio particolare come quello di Einstein il quale a detta dello stesso “non può giocare a dadi”, ma comunque è’ convinto di “scoprire” le “leggi preesistenti” dell’universo, scritte come riteneva Galileo nel linguaggio della matematica. Per il fisico la matematica è un mero strumento – talvolta facendo arrabbiare il matematico per l’uso improprio che ne fa (un esempio è usare il simbolo di derivazione di Leibniz "d/dx" come se fosse una frazione qualsiasi...). Il fisico seleziona quella parte della matematica che gli serve per spiegare un fenomeno e getta via il resto (un esempio sono le soluzioni regressive dell’equazione d’onda del campo elettromagnetico). Se può sfruttare simmetrie è super felice poiché i calcoli si semplificano e là dove ravvede una rottura di simmetria si pone sul chi va là poiché qualcosa di sostanziale sta per apparire all’orizzonte. Il fisico sebbene abbia a che fare con modelli, deve poi sottoporre quest’ultimi al vaglio sperimentale, altrimenti il circolo soggiacente al metodo ipotetico-deduttivo della scienza non si chiude ed egli non può essere certo di aver “scoperto” una legge fondamentale. Se è obbligato a lavorare con uno spazio matematico troppo complesso, si pone in un punto, ne ricava in qualche modo il piano tangente e semplifica le sue formule su quel piano. Il fisico moderno, che al posto di carta e penna usa computer potenti per simulare modelli (statistici) con migliaia di parametri, appare più consapevole della traballante aderenza del suo modello alla realtà materiale là fuori che vorrebbe spiegare (tanti parametri non stimabili, tante assunzioni ad-hoc). Da ultimo, dopo aver studiato attentamente la meccanica quantistica inizia non solo a dubitare del suo modello di lavoro ma anche della realtà a lui esterna.
Il matematico è rapito dall’”idea”, il fisico è ossessionato dalla prestabilita “realtà materiale” circostante e dalla verifica empirica delle leggi. L’ingegnere è metà e metà, ha qualche idea, fa qualche verifica, ma non si espone poiché sebbene possa pensare che le leggi scientifiche che usa siano perfette, deve avere molta fiducia nel suo modello, nei parametri scelti o calcolati, poiché quell’opera tecnica frutto del proprio ingegno potrebbe non essere confacente ai vincoli di progetto e prestazionali e rendersi pericolosa o antieconomica (un fallimento).
In altre parole, l’ingegnere, da una parte è consapevole che i suoi sono modelli massimamente approssimati della realtà fisica, dall’altra sa che essi sono in parte frutto di compromessi che fioriscono in una dimensione prettamente “umana” e che, come tali, poco hanno a che fare con la realtà materiale là fuori. Per l’ingegnere è più facile concepire l’impossibilità di avere a che fare con la totalità determinata. Mentre il fisico scambia la sua parte per la totalità e il matematico si accontenta della parte come tale, trattando formalmente l’altro dalla parte (l’infinito categorematico o sincategorematico che sia). Per il matematico 1=1 è una identità interessante, ma egli vuole contemplarla nella sua più completa astrazione, così accetta qualsivoglia restrizione assiomatica o isolamento, che al massimo permetta di creare un ponte con la teoria degli insiemi ma mai con la realtà degli oggetti, degli enti determinati. Per il fisico tale identità è interessante se ognuno di quegli uni è magari una relazione integro-differenziale complicata che mette in relazione variabili fisiche o costanti di natura (quindi è interessato che a destra e a sinistra del simbolo “=” vi siano quantità diverse seppur relate). Per Severino 1=1 (o A=A, intesi come identità originaria) è l’individuazione della predicazione universale, dell’identità originaria dell’essere: “essere è essere” che è non solo L-immediata, non solo è il principio di non contraddizione, ma è l’autentico fondamento: la negazione della propria autonegazione o la relazione necessaria della totalità dell’essente con sé stesso.
Ora non dico che all’ingegnere interessi il fondamento più del matematico o del fisico, anzi. E non dico nemmeno che il matematico e di conseguenza il fisico è completamente avulso dall’importanza della contraddizione in quanto uno dei metodi di dimostrazione matematica più usati si basa proprio sulla contraddizione. Mentre il matematico anela alle forme ideali e accetta i modelli come tali, il fisico tende a identificare i suoi modelli alla realtà fenomenologica, dimenticando che sta avendo a che fare con la parte e non con la totalità, che l’identificazione è identificazione dei non identici. L’ingegnere, dal canto suo, sa che il suo modello sta più o meno a metà tra la forma ideale presa a prestito dal matematico e la legge empirica formulata dal fisico. Inoltre, egli sa anche che se vuole che il suo modello aderisca maggiormente alla realtà che intende modellare o creare il numero dei parametri deve crescere, talvolta verso l’infinito (mentre al fisico gli infiniti non piacciono affatto e o cerca di eliminarli o li chiama singolarità). Così l’ingegnere, ben consapevole delle sue astrazioni, potrebbe avvedersi più facilmente della totalità anche formale e dell’aver a che fare sempre e comunque con la parte.
Il mio professore di fisica all’università (fu un giovane assistente di Enrico Fermi) ogni qual volta doveva enunciare una legge fisica diceva “tutto va come se…” e continuava “…la particella puntiforme è carica positivamente e genera un campo elettrico a simmetria sferica il cui potenziale…”. Ecco quel “tutto va come se” mostra che ci sono molti fisici invece ben consapevoli dei “modelli” che insegnano, che seppur funzionanti empiricamente, sempre modelli sono.
Per il resto siamo tutti sotto lo stesso cielo.
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