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domenica 10 agosto 2025

Il Fedro di Platone, Joseph Weizenbaum e la noosemia al tempo dell'IA generativa

Intervista a Joseph Weizenbaum, La Stampa, 2 marzo 1985


È noto che, nel Fedro, Platone affida a Socrate il compito di raccontare il mito egiziano di Theuth, inventore della scrittura, e di Thamus, re d’Egitto. Theuth, illustrando le proprie invenzioni, giunge alla più preziosa, la scrittura, presentandola come medicina della memoria e della sapienza. Thamus, con pacata fermezza, rovescia questa visione, affermando che «essa produrrà oblio nelle anime di coloro che l’avranno imparata, per la trascuranza della memoria; fidandosi della scrittura, costoro ricorderanno per mezzo di segni esterni, e non dall’interno, da sé medesimi»¹. L’arte di scrivere non è dunque, per il re, un rimedio alla memoria, bensì un semplice richiamo alla memoria, capace di generare solo l’apparenza della sapienza. Platone, in questa pagina, non rifiuta la scrittura in quanto tale, ma invita a un uso sorvegliato, affinché non sostituisca la pratica viva del dialogo e l’esercizio interiore della memoria.

La riflessione platonica si colloca in un momento di transizione epocale, in quanto l’Atene del IV secolo a.C. stava passando da una cultura eminentemente orale a una cultura scritta². La scrittura ampliava enormemente le possibilità di trasmissione del sapere, ma poneva il rischio di ridurre il sapere a deposito esterno, scollegato dall’elaborazione viva dell’anima. Platone coglie in questa ambivalenza un pericolo sottile, non la perdita della conoscenza, ma la sua trasformazione in simulacro.

Molti secoli più tardi, Joseph Weizenbaum, figura di primo piano nella storia dell’informatica e pioniere del linguaggio naturale, si troverà a difendere un’idea simile nei confronti di un’altra tecnologia della conoscenza. Nato a Berlino nel 1923, emigrato negli Stati Uniti all’età di undici anni, professore di informatica al MIT, Weizenbaum è noto soprattutto per aver creato negli anni Sessanta la nota e iconica ELIZA, uno dei primi programmi in grado di simulare un dialogo in linguaggio naturale³. In una lunga intervista pubblicata su La Stampa nel 1985, l’autore di Computer Power and Human Reason⁴ e Rotta verso l’Iceberg dichiarava: «I computer sono utili solo in quelle scuole che anche senza computer sarebbero buone scuole»⁵.

Il suo bersaglio non era la macchina in sé, ma l’adozione acritica e prematura, capace di sottrarre energie e risorse alle priorità educative fondamentali. «In primo luogo dobbiamo chiederci» affermava «la scuola insegna ai ragazzi ad esprimersi con precisione nella propria lingua, a voce e per iscritto? Riesce a dare loro gli strumenti per capire la società in cui vivono?»⁵. Solo dopo aver consolidato queste basi si sarebbe potuto introdurre il calcolatore come strumento didattico, e mai prima dei quattordici anni. Perfino sulla scelta dei linguaggi di programmazione era netto: «Il Basic, intellettualmente, è una catastrofe», un’istruzione deformante, paragonabile a insegnare la divisione con i numeri romani⁵.

Platone e Weizenbaum, separati da oltre due millenni e da tecnologie radicalmente differenti, condividono un nucleo comune. Entrambi osservano che ogni nuova tecnologia della conoscenza porta con sé un duplice volto. Da un lato, la promessa di estendere le facoltà umane; dall’altro, il rischio di generare un’illusione di competenza, di sostituire l’apparire al comprendere. Platone ammonisce che i discorsi scritti, come figure dipinte, «stanno come vive, ma se le interroghi, tacciono con un solenne silenzio»¹. Weizenbaum avverte che il computer può diventare un alibi per non affrontare i problemi reali dell’insegnamento e della formazione critica, così come per scaricare sulla macchina la responsabilità delle decisioni.

Questa linea di pensiero trova una risonanza inattesa in un concetto più recente, la noosemia (dal greco noûs – mente, intelletto, e semeîon – segno), neologismo che ho introdotto per descrivere un fenomeno emergente nell’interazione con sistemi di intelligenza artificiale generativa⁶. La noosemia è la tendenza dell’utente ad attribuire stati mentali, intenzionalità e interiorità alla macchina, non per la sua forma antropomorfa, ma per la densità semantica, la fluidità e la coerenza inattesa delle sue risposte, insieme ad un effetto sorpresa. È il frutto di una co-costruzione di significato in cui l’output della macchina, unito all’opacità dei suoi processi interni, suscita nell’utente un’impressione fenomenologica di comprensione reciproca. Come ho scritto nella definizione originaria, essa nasce dall’«incontro tra segni linguistici generati dalla macchina e l’interpretazione umana» e produce una «illusione di mente» che, per intensità e qualità esperienziale, trascende la semplice intentional stance di Dennett⁷.

La noosemia si distingue dall’antropomorfismo classico⁸ poiché non richiede un corpo umanoide né un comportamento fisico somigliante, ma si attiva soprattutto nel canale dialogico-linguistico, in un contesto di interazione dinamica. Si lega invece alle ricerche sulla mind perception⁹, che distinguono due dimensioni fondamentali attribuite agli agenti: l’agenzia e l’esperienza. Nei sistemi generativi, entrambe possono essere percepite simultaneamente quando l’output produce sorpresa semantica e risonanza personale. Questo la rende anche un caso di studio per la media equation¹⁰, secondo cui gli esseri umani tendono a trattare i media come se fossero interlocutori sociali.

L’analogia con il mito platonico è suggestiva. Laddove la scrittura, nel Fedro, è sospettata di fornire una conoscenza statica e non interrogabile, l’IA generativa appare invece come un testo dinamico, capace di dialogare. Ma proprio questa apparente interattività ne potenzia la capacità di generare noosemia, poiché rende ancora più difficile distinguere tra comprensione reale e simulazione conversazionale. Se la scrittura offre segni immobili che non rispondono, l’IA generativa offre segni che si muovono e si piegano alle nostre domande, pur restando privi di coscienza o intenzione. La profondità percepita non è nella macchina, ma nel riflesso che essa attiva in chi la interroga.

In questo arco che va da Platone a Weizenbaum e oltre, si dispiega un’unica domanda. Come discernere, nell’uso delle tecnologie cognitive, tra ciò che realmente amplia il nostro pensiero e ciò che lo illude? Platone ammonirebbe che nessun segno esterno può sostituire l’esercizio interiore della ragione. Weizenbaum ricorderebbe che nessuna macchina può supplire alla formazione critica e linguistica di base. La noosemia, infine, ci costringe a riconoscere che non basta sapere che l’IA non pensa: dobbiamo imparare a vedere quando siamo noi a prestarle la nostra mente.


Per approfondire: https://arxiv.org/abs/2508.02622


Note bibliografiche

1. Platone, Fedro, a cura di Patrizio Sanasi, Edizione Acrobat, p. 52.

2. Havelock, E. A., Preface to Plato, Harvard University Press, 1963.

3. Weizenbaum, J., ELIZA – A Computer Program For the Study of Natural Language Communication Between Man and Machine, Communications of the ACM, vol. 9, no. 1, 1966, pp. 36–45.

4. Weizenbaum, J., Computer Power and Human Reason: From Judgment to Calculation, San Francisco, W. H. Freeman, 1976.

5. Pozzoli, C., «Intervista a Joseph Weizenbaum», La Stampa, 2 marzo 1985.

6. De Santis, E., Rizzi, A., Noosemia: toward a Cognitive and Phenomenological Account of the Attribution of Mind in Human–Generative AI Interaction, arXiv:2508.02622, 2025.

7. Dennett, D. C., The Intentional Stance, MIT Press, 1987.

8. Epley, N., Waytz, A., Cacioppo, J. T., «On Seeing Human: A Three-Factor Theory of Anthropomorphism», Psychological Review, vol. 114, no. 4, 2007, pp. 864–886.

9. Gray, H. M., Gray, K., Wegner, D. M., «Dimensions of Mind Perception», Science, vol. 315, no. 5812, 2007, p. 619.

10. Reeves, B., Nass, C., The Media Equation: How People Treat Computers, Television, and New Media Like Real People and Places, Cambridge University Press, 1996.


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