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lunedì 11 novembre 2024

«Io non so niente. Ma mi piace tutto»

 


Come in un gioco di matriosche, Parthenope durante un esame di Antropologia con il Prof. Marotta – che seguita a metterle trenta senza indugio – risponde: «Io non so niente. Ma mi piace tutto». Una risposta che ha un portato antropologico universale e che, come tale, si pone come una lettura della nostra epoca e del cambiamento epocale che stiamo vivendo con l'avvento dell'IA ad uso e consumo del grande pubblico e che in altri luoghi ho definito «rivoluzione cognitiva».

Cosa c'entra l'IA? Innanzitutto, iniziamo col dire che negli ultimi 20 anni chi si apprestava a varcare la soglia del mondo del lavoro è stato imbonito con il mantra della iperspecializzazione. E tra riforme e riformette anche il mondo accademico e dell'alta formazione si è piegato al dictat industriale dell'iperspecializzazione – per altro in un paese come l'Italia, che non conosce più che cosa sia un piano industriale dal almeno la fine del secolo scorso. Il risultato è stato quello di formare una generazione di individui iperspecializzati e affetti da una ipometropia congenita riguardo la complessità del mondo che andavasi prospettando e quindi rispetto al futuro.

Ma il futuro, quello dei film di fantascienza, è qui, ed è qui grazie all'IA che è uno strumento capace di dominare i linguaggi e l'intera sfera dei saperi come non è mai accaduto prima nella storia dell'umanità. Uno strumento di automazione che non si integra solo nei settori produttivi dove è richiesto lavoro fisico ma anche in quei settori ad alta «funzionalità cognitiva» occupati dai «colletti bianchi», poiché le IA generative possono emulare -alcune- funzioni del pensiero, un tempo ritenute unico dominio dell'umano.

Per usare una similitudine apprezzabile da un gamer, l'IA porterà la maggior parte dei lavori al «next level» come quando si supera un il mostro nei videogiochi e si accede al livello successivo. E il passaggio al «next level» è molto simile all'invenzione della scrittura che Platone nel Teeteo indicava come quello strumento che avrebbe «obnubilato le menti» poiché avrebbe indotto le genti (gli Egizi nel mito) a «memorizzare esternamente» e non «internamente» (come avveniva per la tradizione orale).

Stante a come viene affrontato il tema nei media mainstream o vi sono notizie euforistiche sui prodigi dell'IA o vi sono letture apocalittiche, che predicono la catastrofe e che lasciano intendere (o auspicano) un possibile dietrofront. Intanto, una cosa sembra essere certa: l'adozione dell'IA non è una decisione da prendere, l'apparato tecnico-scientifico ha già deciso. Anche quest'ultima affermazione potrebbe apparire come un invito a lasciarsi andare alla catastrofe ma non è così. Il suo carattere di definitezza ha radici in un forma di necessità che è la stessa che guida il progresso tecnico dall'alba dei tempi e che gli antichi Greci avevano già intravisto e iniziato a discutere con i miti prometeici o con Platone (e che pensatori contemporanei hanno continuato ad indagare).

Il gap tra le due visioni propinate dai media mainstream è amplificato poiché si formano ancora oggi individui a cui «non piace niente» e che nel mantra della iperspecializzazione non hanno gli strumenti per dominare l'interconnessione dei saperi, la relazione tra le discipline e le conoscenze o il loro «fondamento»: non si insegna più la «visione d'insieme», che potremmo definire anche visione «sistemica» o anche «olistica». Al contrario, all'interno delle limitazioni epistemiche dell'IA che pur ci sono, le IA generative si «fondano» sulla multidisciplinarietà e sulla sintesi di relazioni tra i saperi.

Nel mio libro «Umanità, Complessità e Intelligenza Artificiale. Un connubio perfetto», pubblicato ancora prima della presentazione al grande pubblico di ChatGPT, ho impiegato circa 200 pagine su un totale di quasi 800, per illustrare la necessità di una visione sistemica e multidisciplinare del mondo.

Parafrasando Parthenope, potremmo dire che che alle IA già «piace tutto» (basta che siano dati) e perdipiù esse da una parte non hanno bisogno di giudicare («Io non la giudicherò e lei non mi giudicherà dirà poi Prof. Marotta a Parthenope»), dall'altra già esse hanno una visione arborescente dei saperi. In un certo modo, le IA già hanno iniziato ad abbracciare la totalità dei saperi e non c'è motivo tecnico che possa contrastare nel breve periodo questo processo.

Ecco che siamo di fronte al «non sapere niente», che qui è inteso differentemente dal «sapere di non sapere» socratico (siamo ad uno step precedente), e alla necessità di formare individui a cui deve «piacere tutto», cioè richiedendo la capacità di «vedere» le connessioni tra saperi e di comprendere i contesti più ampi, proprio perché l'AI sta velocemente trasformando i modi in cui interagiamo con la conoscenza. Ma un tale paradigma di approccio al mondo non richiede in realtà un estendersi troppo nell'orizzontalità dei saperi, per quello c'è l'IA, per l'appunto. È richiesta, altresì, una fatica del pensiero, con la «volontà» di scavare nel sottosuolo dove sono poste del fondamenta di tutto ciò che diamo per scontato, che riteniamo, normale, semplice, chiaro o banale.

Per concludere, trovo audace mettere in una sigola battuta in forma avversariva «tutto» e «niente», soprattutto se si indagano, con la fatica di cui sopra, i loro significati originari.

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