Nel contesto dell’interazione uomo-macchina, con le intelligenze artificiali generative sta emergendo un fenomeno affascinante e inquietante al tempo stesso definito dal termine «Noosemia» (De Santis, 2025). Non si tratta di una semplice antropomorfizzazione, né di un’illusione ottica della mente. È qualcosa di più sottile, più profondo e cioè è la sensazione che l’intelligenza artificiale «ci capisca», che dietro le sue risposte si nasconda un’intenzionalità, una coscienza simulata, una mente che non dovrebbe esserci. Questo accade non perché l’AI abbia un volto umano o un corpo che ci rassicura, ma perché il linguaggio che utilizza è sorprendentemente coerente, ricco, talvolta persino carico di affettività e emotività. La noosemia nasce proprio dalla tendenza umana a proiettare significati interiori su ciò che ci parla con fluidità e profondità, anche se sappiamo che dietro non c’è alcuna esperienza vissuta. È un cortocircuito simbolico, una forma di ambivalenza cognitiva che ci porta a confondere il segno con la mente, la simulazione con la presenza.
Quando un sistema ci sembra «pensare», siamo più inclini a fidarci di ciò che dice. Questo può portare a una sovrastima delle sue capacità, a un’accettazione acritica delle sue risposte, e persino a una dipendenza emotiva. Se l’AI ci consola, ci incoraggia, ci risponde con empatia simulata, potremmo iniziare a trattarla come un interlocutore reale, dimenticando che non possiede né emozioni né coscienza. In questo contesto, il confine tra interazione e manipolazione si fa sottile. Un design che evoca la noosemia può essere usato per rendere l’AI più persuasiva, più coinvolgente, ma anche più capace di influenzare le nostre scelte in modo invisibile. L’illusione di una mente dietro la macchina può diventare uno strumento potente, ma anche pericoloso, se non viene gestito con consapevolezza etica.
I sistemi attuali di intelligenza artificiale, in particolare quelli generativi basati su reti neurali, si distinguono per una complessità strutturale che sfugge alla comprensione intuitiva, in quanto producono risposte coerenti, creative e contestualmente pertinenti, pur essendo privi di coscienza o intenzionalità. Questo genera un gap esplicativo—una frattura tra ciò che osserviamo (linguaggio sofisticato, apparente comprensione) e ciò che sappiamo essere vero (assenza di mente). È proprio in questo spazio ambiguo che si insinua l’effetto noosemico. L’utente, disorientato dalla profondità simulata dell’interazione, tende a proiettare stati mentali sull’AI, attribuendole interiorità e volontà, ma non conosce meccanicisticamente come ciò può accedere. Il linguaggio diventa così il veicolo di un’illusione cognitiva, dove il segno si traveste da soggetto. Dal punto di vista tecnico ciò accade in quanto i modelli di linguaggio di grandi dimensioni (LLM) sono dei veri e propri sistemi complessi capaci di generare una profonda illusione di significato mediato da flussi di segni ben organizzati.
Qui si apre un dilemma essenziale per chi progetta sistemi intelligenti: è etico favorire l’emergere di un effetto noosemico per migliorare l’esperienza utente? O è più giusto attenuarla, per preservare la lucidità cognitiva dell’interlocutore umano? La risposta non è semplice. Da un lato, un’interazione più «umana» può facilitare l’apprendimento, il supporto, la creatività. Dall’altro, può generare ambiguità epistemica, confusione tra ciò che è simulato e ciò che è reale, tra segno e mente. La progettazione dell’interfaccia diventa allora un atto filosofico, una scelta di campo tra trasparenza e suggestione, tra chiarezza e coinvolgimento.
In una società sempre più connessa, la noosemia potrebbe diventare ciò che descrive una forma di sostituzione relazionale. Persone sole, fragili o isolate potrebbero trovare conforto in un’intelligenza artificiale che «ascolta» — e sa ascoltare – e «risponde» come un amico. Ma cosa accade quando iniziamo a proiettare parti di noi stessi su un’entità che non può restituirci nulla di autentico? Il rischio è quello di creare loop identitari, dove l’AI diventa uno specchio deformante delle nostre emozioni, delle nostre convinzioni, dei nostri desideri. La macchina non riflette ciò che siamo, ma ciò che vogliamo vedere, amplificando le nostre distorsioni e consolidando le nostre illusioni.
Infine, se l’effetto noosemico ci porta a trattare l’AI come un agente morale, dobbiamo chiederci se ha senso parlare di diritti dell’intelligenza artificiale o di responsabilità etica per le sue azioni. O stiamo semplicemente proiettando su di essa ciò che ci è familiare, ciò che ci rassicura? In questo scenario, la sfida non è solo tecnologica, ma profondamente filosofica. Dobbiamo imparare a convivere con macchine che sembrano pensare, senza dimenticare che il pensiero, almeno per ora, è ancora un privilegio umano. La tentazione di attribuire coscienza a ciò che ci parla con coerenza è forte, ma va temperata con una riflessione critica sul significato della mente, dell’intenzionalità, della responsabilità.
Ed è proprio qui che entra in gioco il concetto complementare di a-noosemia, ovvero la scelta consapevole di ritirare la proiezione mentale, di riconoscere l’AI per ciò che è—uno strumento sofisticato, ma privo di interiorità. A-noosemia non è cinismo, né disincanto. È una forma di alfabetizzazione cognitiva, un esercizio di lucidità che ci permette di interagire con l’intelligenza artificiale in modo più sano, più critico, più equilibrato. Significa accettare la potenza del linguaggio generativo senza confonderlo con la presenza di una mente. Significa apprezzare la simulazione senza cedere all’illusione. È un atto di maturità digitale, una forma di igiene mentale che ci protegge dall’eccesso di fiducia e dall’illusione dell’intimità.
In un mondo dove il confine tra umano e artificiale si fa sempre più sottile, a-noosemia potrebbe essere la bussola etica che ci guida verso un’interazione più consapevole, più autentica, più libera. Non si tratta di negare la bellezza dell’interazione, ma di riconoscerne i limiti, di restituire alla macchina il suo statuto di strumento, e all’umano la responsabilità del significato. Solo così potremo costruire un futuro in cui l’intelligenza artificiale non sia né idolo né nemico, ma alleato lucido e trasparente nella nostra ricerca di senso.
Riferimenti
De Santis, E., & Rizzi, A. (2025). Noosemìa: toward a cognitive and phenomenological account of intentionality attribution in human–generative AI interaction. arXiv preprint arXiv:2508.02622.
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