Il verbo errare (dal latino errare, «vagare, andare qua e là senza meta») in un senso astratto conserva ancora oggi una doppia valenza. Da un lato significa sbagliare, cioè deviare da un percorso atteso o, addirittura, in alcune forme di teoresi «contraddirsi». Dall’altro indica il camminare senza direzione precisa, un procedere non guidato da uno scopo determinato. In questa ambivalenza simbolica si cela un concetto centrale per la scienza della complessità, quello di cammino aleatorio, o random walk. Si tratta di un modo per pensare il «caso» come successione di luoghi visitati in uno «spazio erratico» e l’incertezza come struttura, un tema che ho trattato anche nel mio «Umanità, Complessità e Intelligenza Artificiale. Un connubio perfetto» (Aracne, 2021).
La formalizzazione moderna del cammino aleatorio risale all’inizio del Novecento, quando Karl Pearson pose per la prima volta, in forma divulgativa, la domanda su quale fosse la distanza media percorsa da un uomo che compie una serie di passi casuali in direzioni altrettanto casuali. A questa intuizione seguì un importante sviluppo teorico. Norbert Wiener definì il moto browniano come limite continuo del cammino aleatorio, mentre George Pólya ne analizzò con rigore la probabilità di ritorno al punto di partenza, dimostrando che tale probabilità dipende dalla dimensione dello spazio e formulando ciò che oggi è noto come teorema della ricorrenza per le random walk. Anche Albert Einstein si occupò dei cammini aleatori, in particolare nel contesto del moto browniano. Nel 1905, nello stesso anno in cui Pearson poneva la sua celebre domanda, Einstein pubblicò un lavoro fondamentale sull'agitazione termica delle particelle sospese in un fluido. In quel contributo, mostrò come il comportamento casuale delle particelle potesse essere descritto statisticamente e derivato dalle leggi della meccanica e della probabilità. Questo studio, apparentemente marginale rispetto alle sue più celebri teorie, pose le basi per l’approccio probabilistico alla fisica dei sistemi disordinati e fu uno dei primi esempi di modellazione rigorosa di un cammino aleatorio in ambito fisico.
Uno degli esempi più noti e intuitivi è quello dell’ubriaco
che, uscendo da un bar, compie passi di lunghezza costante scegliendo la
direzione in modo casuale. Se questo movimento avviene lungo una retta o su una
griglia bidimensionale, l’ubriaco tornerà prima o poi al punto di partenza con
probabilità uno. In questi casi il ritorno è certo. Se invece si muove in uno
spazio tridimensionale, la probabilità che torni scende a circa il 34 percento.
Quando le dimensioni dello spazio aumentano, per esempio fino a dieci
dimensioni, questa probabilità si riduce drasticamente, arrivando a circa l’1
percento. Più lo spazio si fa complesso (nel numero di dimensioni), più il
cammino tende a disperdersi. L’ubriaco, in questo scenario, finisce per
perdersi quasi sempre.
Questa intuizione, seppure semplice nella formulazione, è
oggi alla base di numerosi modelli utilizzati per descrivere fenomeni
complessi. Si applica alla diffusione delle particelle in fisica statistica,
alla dinamica genetica in biologia, ai movimenti dei mercati finanziari, così
come alla propagazione di segnali nei grafi (opportune strutture matematiche
che descrivono le relazioni tra entità). Esiste però anche una forma
particolare di cammino aleatorio che riguarda il linguaggio e la scrittura.
Un testo può essere interpretato come una sequenza di parole che si succedono in maniera diacronica secondo vincoli locali e globali. In questa prospettiva, la scrittura diventa una passeggiata semantica attraverso lo spazio delle possibilità linguistiche. In alcune mie ricerche recenti ho approfondito – secondo un’opportuna metodologia – l’idea che un testo scritto (da un essere umano o da una IA generativa quale Claude o ChatGPT) possa essere visto come un cammino aleatorio su uno spazio simbolico. In questo spazio, la direzione di ogni passo è determinata non solo da regole grammaticali, ma anche da vincoli sintattici e da strutture semantiche di grado sempre più elevato che appaiono variare nel tempo. La complessità del linguaggio emerge come un equilibrio dinamico tra vincoli morfosintattici stringenti e vincoli contenutistici di stampo semantico sempre più rilassati. Per inciso, tale metodologia è utile anche per «sgamare» un testo scritto da una IA, a patto che sia abbastanza lungo…
Ci si potrebbe domandare quindi cosa distingue un testo dove
la sequenza diacronica di parole (o addirittura di caratteri) appare in forma
completamente casuale, tale da apparire privo di significato sul piano
comunicativo, e uno in cui l’ordine delle parole appare trasportare un senso
compiuto. Ci sono formulazioni matematiche che permettono di stabilire il
degrado del senso in termini scientifici. Ma al di là del rigore scientifico su
può riferire che c’è una «volontà» ordinante che limita l’errare delle parole
nello spazio semantico cui esse sono immerse. E in questa volontà che si annida
il «significare» (riferiamolo come di «secondo livello» o «epistemico» per
distinguerlo dal significare «ontologico») portato in luce dalla «svolta
linguistica».
Interessante, in ultimo, è che sul piano astratto inerente
alla formalizzazione delle random walk si può riferire qualcosa sul concetto
di «eterno ritorno» – formulato in modo radicale da Nietzsche, ma già presente
in forme arcaiche nel pensiero antico e orientale – il quale afferma che tutto
ciò che accade è destinato a ripetersi, ciclicamente, all’infinito. Infatti, la
random walk, pur nel suo apparente disordine, ci offre un’intuizione
affine. In uno spazio sufficientemente semplice, come una retta o un piano,
l’ubriaco è destinato a tornare. Il ritorno non è garantito in senso
deterministico, ma è certo in senso probabilistico. È una «necessità statistica».
Al contrario, in uno spazio più complesso, il ritorno diventa improbabile o
addirittura trascurabile. In questa tensione tra ricorrenza e dispersione – in
cui si insinua la «volontà (di potenza)» –, tra ritorno e perdita, si dischiude
una visione profonda del tempo e della struttura dell’universo fisico, dove –
sul piano astratto – la semplicità geometrica favorisce il ritorno, la
complessità topologica tende a dissolverlo.
Così, l’eterno ritorno non si presenta più solamente come un
destino mitico, ma diventa una proprietà strutturale, che dipende dalla natura
dello spazio in cui si cammina, dalla rete di vincoli e possibilità che
definisce il mondo attraversato. Anche l’ubriaco, nel suo vagare, ci racconta
qualcosa delle astrazioni matematiche, della contingenza, del tempo, della
memoria e della possibilità di ritornare – oppure di perdersi per sempre. Ci
racconta qualcosa sulla «potenza dell’errare».
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De Santis, E. (2021). Umanità, complessità e
intelligenza artificiale. Un connubio perfetto. Aracne Editrice. ISBN:
979-12-5994-562-4.
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