Sul perché è necessario essere prudenti nel conferire giudizio definitivi sull'Intelligenza Artificiale
Sono numerosi gli esperimenti proposti atti a delineare gli -attuali- limiti dei modelli di linguaggio artificiali (Large Language Models) e sono molto utili in un senso ben preciso in quanto pongono l'accento sui problemi e rischi rispetto un utilizzo overconfidente di questi sistemi. In linea di principio, ci sono due modalità apparentemente contrastanti per approcciare questa tecnologia emergente e farsene un giudizio generale. Il primo (1) si basa sul portare all'estremo i limiti -attuali- a dimostrazione che alcuni compiti sono più immediati per cervelli/sistemi cognitivi umani mentre gli attuali modelli sbagliano miseramente. Ciò può valere anche portando la macchina su terreni fuori dai limiti di progetto. Tale approccio è utile per mostrare in maniera indiretta a coloro che non hanno alcuna idea di come funzionano realmente/internamente questi modelli il loro reale funzionamento allo stato attuale. La seconda modalità di approccio (2) è valutare le prestazioni o capacità cognitive di questi modelli in un’ottica incrementale, cioè tentare di seguire passo dopo passo l'evoluzione (storica) di questi modelli e valutare i salti in prestazioni. Questa modalità di analisi già contiene in sé la contezza dei limiti di tali sistemi. In altre parole, valutare che prima dell'invenzione delle architetture Transformer non era possibile in alcun modo fare i test che hai fatto e prendere in castagna la macchina è un esempio. Prima del 2017 la comprensione del linguaggio naturale si basava su algoritmi molto semplici e su un approccio al modellamento del linguaggio che non permetteva di fare ciò che si può fare adesso. Ora a questo punto del ragionamento si ha un nuovo bivio. (2a) Focalizzarsi nuovamente sui limiti attuali, sciorinarli e formarsi un giudizio definitivo (posizione in linea con (1) sebbene da una prospettiva differente) oppure (2b) valutare il salto incrementale di prestazioni e seguire una linea di pensiero per cui «come si è migliorata questa tale capacità (prendiamone una a caso) si è confidenti che se ne miglioreranno altre» (vedi oltre per la descrizione della base di questo approccio). La modalità di approccio (2) è quella che porta allo stupore rispetto alle prestazioni raggiunte di volta in volta, in quanto la contezza che fino all'anno prima non si poteva svolgere un determinato task porta a dire «cavolo!». Ma in questo caso – mi ripeto – l'esclamazione porta con sé la consapevolezza dell'attuale limite ma anche la contezza della possibilità che questo limite possa essere prima o poi superato. Se invece si utilizza la modalità di approccio (1) si rischia di rimanere focalizzati sul -limite attuale-, considerandolo un qualcosa di immutabile ed eterno. Faccio un esempio. Ho letto un libro recente sul linguaggio umano – scritto da non esperti di modelli di linguaggio artificiale – che nell'ultimo capitolo faceva dei test con la ormai obsoleta versione GPT3 del 2021 (non la 3.5 successiva), quando ancora ChatGPT non era disponibile al grande pubblico. Tale libro testando GPT3 con giochi linguistici vari e piccoli trabocchetti, con sicumera dichiara che questo strumento non è altro che un pappagallo e mai padroneggerà le strutture più complesse del linguaggio. Ora se si pongono quei trabocchetti ai modelli attuali si nota che quegli errori non vengono più compiuti. Qui il punto non è che gli autori non dovevano sottoporre GPT3 a test di quel genere. L'errore è considerare come definitivo un limite attuale. Un'analisi generale dell'evoluzione della tecnica umana mostra che l'essenza della tecnica stessa è il superamento del limite, qualsiasi limite (fino a prova contraria). Tutto il curriculum didattico delle facoltà di ingegneria (ma ciò si può estendere alle facoltà scientifiche in genere) è in essenza una carrellata di esempi di come nel passato si sono superati i limiti, con l'intenzione che il discente possa estrapolare schemi/nuove teorie per sorpassare qui limiti che egli si troverà innanzi in forma di nuovi problemi. Ora, ironia della sorte, l'umanità si trova di fronte delle macchine che provano esse stesse a estrapolare schemi di soluzione a problemi mai visti. Spesso le soluzioni artificiali proposte sono goffe ma sempre più spesso sono sorprendenti (in confronto a pochi anni fa – ecco l'approccio (2b). Ciò che si dovrebbe spiegare è che non siamo di fronte all'«IA definitiva» (e nel senso dell'inesistenza di limiti definitivi la locuzione «IA definitiva» perde essa stessa senso). Ciò a cui siamo di fronte però è alla repentina convergenza di tutte le branche dell'intelligenza artificiale (sistemi multiagente, reinforcement learning, reti neurali, modelli di Markov etc.), un tempo considerate separate, e alla convergenza di due modalità di ragionamento artificiale che un tempo andavano per strade differenti e cioè l'IA simbolica (modelli precisi, basati su inferenze logiche deduttive e certe) e l'IA neurale (modelli basati su logiche ampliative e ragionamento incerto). In altre parole, stiamo convergendo verso l'IA neurosimbolica. In altre parole ancora, da un paio di anni la tecnica ha iniziato a modellare forme di pensiero analogico (caratteristiche del pensiero umano) agenti in tandem con forme di pensiero logico (da sempre caratteristiche dei calcolatori digitali). Ad oggi, per fare una similitudine, bisogna avere la consapevolezza che chattare con ChatGPT è come interagire direttamente con quell'area del cervello adibita al linguaggio (area di Broca) separata (isolata) dal resto del cervello. È come se nel 1988 stiamo usando il Commodore 64 e c'è chi si stupisce delle prestazioni del MOS 6510/8500 a 1 MHz e chi invece ne deride i limiti. Fatto sta che oggi l'equivalente di quel processore è un chip micrometrico magari ancora presente negli attuali calcolatori ma che fa banalmente da controller alla ventola di raffreddamento della CPU. Tutto in linea con la legge empirica di Moore. Eppure, un tempo quel processore lo si usava per lavori di ufficio o addirittura per gaming, per non dire in moduli di vettori spaziali. Ciò per ribadire che l'IA che verrà tra qualche anno è la convergenza di più tecnologie e soprattutto l'utilizzo di agenti ovvero modelli di linguaggio specializzati, e reti neurali task oriented specializzate, che lavorano in concerto. Questo punto è collegato all'attuale carenza di ChatGPT nel dare risposte che posseggono un grado di confidenza per cui l'utente possa avere contezza della validità della risposta. Esistono già strutture ad agenti in cui il sistema prima di rispondere fa un check della fattualità delle risposte – ove tale fattualità esista in principio – e procede alla correzione ove sia necessario, fornendo al contempo al modello una cognizione del grado di confidenza nella risposta stessa. Tali funzionalità sono implementate in forma altamente sperimentale nei cosiddetti modelli che utilizzano il ragionamento strutturato (e.g., GPT4o1 oppure o3) - che sono attualmente limitati nell'utilizzo per ovvi motivi computazionali. Infatti, tali modelli sono in grado di costruire alberi di ragionamento composti da milioni di rami e fare backtracking per mezzo di agenti che controllano la veridicità delle risposte e la coerenza logica delle catene di ragionamento. Il punto è che attualmente modelli come GPT4o («solo linguaggio», quindi) sono molto onerosi in termini computazionali e per fare un sistema ad agenti ne servono molti che lavorano in tandem, e ciò non è (ancora) proponibile al grande pubblico (al 2025). Il CEO di OpenAI ha dichiarato qualche tempo fa che l'attuale GPT4.5 sarà l'ultimo modello «solo linguaggio» in quanto GPT5 incorporerà i modelli ad agenti con ragionamento strutturato di default. Per inciso, le logiche commerciali sono comunque vincolate a limiti attuali di varia natura (computazionali, energetici, etc.) Tutto ciò si potrà compiere solo perché si stanno agganciando quelle leggi di scala che sono ubiquitarie nell'informatica e sono legate all'ottimizzazione della complessità computazionale e dell'hardware. Ad oggi, nel 2025, siamo all'inizio della curva inerente queste leggi di scala. In altre parole, tutto il comparto dell'informatica si è tenuto su e ha progredito per la confidenza nella legge di Moore, per cui se nel presente si ha quel tale limite computazionale tra due anni esso sarà superato. Ecco, esistono tante piccole leggi empiriche nello stile di Moore anche per i modelli di linguaggio e tecnologie afferenti che mostrano incrementi lineari di prestazioni. Da qui, l'approccio 2b di cui si parlava sopra appare essere il più prudente e per certi versi realistico, almeno per gli addetti ai lavori.
Potrei fare una miriade di esempi su ciò che sorprende di questi modelli e che fino a un paio di anni fa era impensabile. Se si prova a utilizzare un LLM (e.g. GPT4o) per scrivere codice si nota che attualmente il modello è capace di gestire una codebase di migliaia di file di codice e scrivere moduli collegati alla codebase fino a 6/700 righe di codice. Significa che il modello ha «cognizione» di tutte le relazioni di tutte le variabili fino ad un grado superiore a uno in moduli molto grandi. Ora se si analizza tale capacità rispetto alla contezza di che cosa è un codice informatico complesso si comprende lo stupore, in quanto il modello è capace di gestire l'interconnessione logica (certa) di migliaia di variabili. Immaginiamo il flusso del codice e quindi delle computazioni come tanti fili molto lunghi che seguono varie traiettorie, poi si diramano, poi alcuni si interrompono e poi ne partono altri. Tale flusso non è altro che una serie interconnessa di inferenze logiche deduttive. In altre parole, il modello gestisce grafi di calcolo dove le interconnessioni tra i nodi non sono solo rispetto al nodo successivo (grado 1) ma anche rispetto ai nodi parenti dei nodi iniziali (gradi successivo ad 1). Ecco il modello di linguaggio in forma completamente statistica riesce a gestire/emulare senza errori inferenze deduttive (emulazione del pensiero logico per mezzo del pensiero analogico). Perché non si è mai riusciti prima a costruire una IA capace di scrivere codici di programmazione complessi e funzionanti? Perché immaginare di farlo tramite l'«IA classica» ovvero programmando a mano delle look-up table per fare ciò ha una complessità computazionale esponenziale, impraticabile anche solo nel principio. Al contrario, da pochi anni i modelli di linguaggio dimostrano che attraverso un approccio statistico al modellamento (modalità di inferenza analogiche) è possibile risolvere con complessità sub-esponenziali problemi che altrimenti sarebbero intrattabili. Questo è un unicum nell'evoluzione tecnologica. Ora, attualmente se sì scrivono codici superiori a mille righe si nota un ingente decremento delle prestazioni, il modello inizia a dimenticare interi blocchi di codice tendendo a semplificarne la struttura pur di mantenere una coerenza. Non si osserva mai che il modello inizia a scrivere lettere a caso. Questi è sorprendente ed è legato alla struttura di questi Transformer e alla loro modalità di elaborazione gerarchica delle informazioni, che è simile a quanto si è appurato nelle strutture neocorticali del cervello.
In definitiva, siamo in un’epoca in cui nemmeno chi progetta la macchina – il modello di IA – conosce i meccanismi a grana fine di funzionamento poiché alcuni comportamenti che mimano l'intelligenza umana (e.g., linguistica) sono emergenti e derivano sì da una forma di apprendimento ma, specificatamente da un apprendimento dell'apprendimento.
Per i modelli linguistici si sono compresi molti aspetti e si è capito come l'introduzione di catene di ragionamento (e.g., GPT4o1 oppure o3) aumenti le prestazioni e limiti gli errori/allucinazioni. Per le immagini, dato il carattere oneroso dei training (ma anche della forma aperta di questa particolare tipologia di dato dove non c'è un vocabolario definito di parole) solo in questi ultimi mesi si stanno testando modelli di ragionamento a catena e training mirati alla comprensione profonda della scena al fine di improntare ragionamenti complessi. La sfida è appena partita. Un esempio è il miglioramento di qualche giorno fa da parte di OpenAI dei modelli di generazione delle immagini che ora rispondono molto meglio al prompt. Ecco, rispetto all'anno scorso questo è un grande passo avanti. Ora è difficile dire quando queste curve di miglioramento satureranno. Ciò perché c'è una mole di dati che ancora attende di essere elaborata. Un esempio è quella mole che proverrà da dispositivi semi-autonomi in grado di interagire con l'ambiente circostante, quindi compiere azioni e catturare autonomamente feedback. In questo caso, assisteremo alla comparsa di agenti che non solo incorporeranno la «tiepida» conoscenza umana e la sciorineranno in maniera asettica. Assisteremo ad agenti che incorporeranno anche esperienza privata proveniente dalla loro specifica e unica interazione con il mondo e questo emulerà forme di comportamento che potranno essere concepite come uniche. Per quanto riguarda le forme di ragionamento ad albero utilizzate negli attuali modelli avanzati (e.g., GPT4o1 oppure o3) il discorso è ancora più intrigante. Se questi modelli basati su Transformer sono in grado di catturare schemi di ragionamento analogico di alto livello semantico da un banale testo che è una più o meno lunga catena di parole, si immagini – come già sta avvenendo – questi modelli addestrati sulle mosse in partite online di migliaia di videogiocatori in giochi di ruolo o di intelligenza. Sono in sperimentazione sistemi di questo genere, dove il modello apprende schemi di ragionamento dalle tattiche e dalle strategie dei videogiocatori. Insomma, la partita non è ancora finita.
«Né più mai
toccherò le sacre sponde / ove il mio corpo fanciulletto giacque, / Zacinto
mia...»
— Ugo Foscolo, A Zacinto (1803)
«Vaghe stelle
dell’Orsa, io non credea / tornare ancor per uso a contemplarvi / sul paterno
giardino scintillanti...»
— Giacomo Leopardi, Le ricordanze (1829)
«Sempre un
villaggio, sempre una campagna / mi ride al cuore, sempre, a tutte l'ore, / la
stessa pieve dalla bianca torre...»
— Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio (1903)
«Il vero
paradiso è il paradiso che si è perduto.»
— Marcel Proust, À la recherche du temps perdu (1913–1927)
«We shall not cease from exploration / And the end of all our exploring /
Will be to arrive where we started / And know the place for the first time.» — T. S. Eliot, Little Gidding, in Four
Quartets (1942)
«Non si
ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.»
— Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. Diario 1935–1950
(postumo, 1952)
«La nostalgia:
desiderio di tornare. Non alla terra natale, ma al tempo in cui si era là.»
— Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984)
«L’uomo non
rinuncia mai a nulla, cambia solo gli oggetti del suo desiderio.»
— Sigmund Freud, Il disagio della civiltà (1930)
«La memoria è
il diario che ciascuno di noi porta sempre con sé.»
— Oscar Wilde, The Importance of Being Earnest (1895)
«[...] portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo
inzuppato un pezzetto di madeleine. Ma, nel momento stesso che quel sorso misto
a briciole di biscotto toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva
in me di straordinario. [...] E ad un tratto il ricordo m’è apparso.» Così
Marcel Proust scriveva in La strada di Swann evocando un cosiddetto
"ricordo involontario" innescato da un biscotto. Non avrà il sapore
letterario di una madelaine ma anche a me, qualche tempo fa, è capitato
qualcosa di simile che mi ha gettato, per giorni, nel vortice della nostalgia.
Voglio qui raccontarvelo. Tutto iniziò il giorno del compleanno del mio papà,
che cade il quattro marzo, quando mio fratello ha deciso di venire a casa a
portargli un dono, una radio, non di chissà che qualità. Al mio papà sono
sempre piaciute le radio, ancora oggi (2025) non potrebbe vivere senza. Quel
giorno mi trovavo nell'altra stanza e sentivo distrattamente mio fratello che spiegava
che quella radio aveva addirittura le «Onde Corte». In un primo momento ci feci
poco caso, «che cosa carina» pensai, e tornai a lavorare alle mie ricerche.
Quando mio fratello andò via papà venne da me nella sala e con la gioia in viso
mi fece vedere la radio che, accesa, emetteva il classico fruscio di scarsa
sintonia. Anche in quel frangente osservai la scena alquanto distratto e dissi
poco o nulla. Anche nei giorni successivi in realtà non mi incuriosii più di
tanto di quella radio ricevuta in dono anche se mio padre era tornato a
mostrarmela invitandomi ad apprezzare la potenza del volume. La presi in mano e
la guardai. Poi la riposi nelle sue mani e la cosa finì lì. Passato qualche
altro giorno tornai ad osservarla. Notai con un certo stupore che, sebbene non
fosse di qualità, quell'apparecchio aveva la banda della Modulazione di
Frequenza, delle Onde Medie, e ben due bande adiacenti sulle Onde Corte che
nell'insieme andavano dai 3 MHz ai 20 Mhz. Posizionai il selettore sulla banda
delle Onde Corte e ascoltai il classico fruscio dei 12 metri che ben conoscevo,
sebbene quel particolare modello moderno rendesse quel rumore molto più
spigoloso di quello emesso dalle vecchie radio a condensatori e valvole. Mi
resi conto che su quella banda non si captava quasi nulla, se non flebili suoni
irriconoscibili. È pure vero che nel pomeriggio si era in condizioni di scarsa
propagazione, essendo la sera il momento di elezione per il radioascolto su
quelle particolarissime frequenze, le Onde Corte. Riprovai qualche ora più
tardi e riuscii a sintonizzare una stazione in lingua cinese, probabilmente
l'onnipresente Radio China International. Poi riposi l'apparecchio sul tavolo e
lo lasciai lì per qualche tempo. Tuttavia, mi accorsi fin da subito che in me
stava montando un sentimento strano, che pian piano riconobbi con maggiore
chiarezza. Era la nostalgia. Da quel momento fui gettato in sensazioni
inafferrabili e pur chiaramente presenti. La radio aveva ridestato in me il
"sentimento del tempo". Un sentimento del fluire del tempo non
generico, scollegato con il resto, bensì frammisto alla nostalgia dei pomeriggi
e delle sere passate, fino a tarda notte, ad ascoltare la radio insieme al mio
papà. Un grande appassionato che aveva sempre una radio con sé sul comodino
(anche più di una). Ricordo il caratteristico fruscio delle Onde Medie tra una
stazione e l'altra dove nel sottofondo potevano ascoltarsi le interferenze di
quelle stazioni trasmettenti nelle bande limitrofe, strani suoni, che solo
successivamente scoprii essere i segnali delle comunicazioni in codice morse e
delle telescriventi, con tutta probabilità emesse dalle navi o dalle stazioni
radio costiere. Ho il ricordo di quella manopola della sintonia che saltava da
una stazione all'altra, ora l'altoparlante emetteva una lontana musica
balcanica, poi si sentiva la calda voce italiana di un radiocronista. Poi la
manopola continuava a girare e voci arabe si intervallavano a segnali
provenienti dal Nord Africa. Io mi sentivo così al sicuro tra le braccia di mio
padre mentre viaggiavo con lui in quell'etere che mi appariva così misterioso.
Le Onde Medie avevano un fascino particolare poiché quelle stazioni lontane
potevano essere captate solo la sera ed era allora che la radio si svegliava e
iniziava la sua danza. I canali nazionali si udivano forte e chiaro anche di
giorno. La RAI, che allora investiva molto sulle Onde Medie, copriva il
territorio nazionale con numerose trasmittenti di varia potenza con i tre
canali nazionali. Ma la notte l'intera banda che andava dai circa 526 KHz fino
ad oltre in 1600 KHz si popolava di una miriade di stazioni straniere, le cui
emissioni molto flebili destavano ancora più curiosità delle stazioni
nazionali, sebbene allora la qualità delle trasmissioni RAI, nei loro
contenuti, fosse incontestabilmente elevata. Ricordo che amavo vedere il
cursore della sintonia scorrere lungo la lista di numeri che indicavano la
frequenza e il corrispettivo in metri della lunghezza d'onda. Anche una
piccolissima rotazione della manopola poteva scoprire una nuova voce, una nuova
stazione che trasmetteva da chissà dove a migliaia di chilometri di distanza. E
intanto al sicuro sotto le coperte e nel manto notturno quei suoni
indecifrabili, quei rumori, quelle voci dai toni bassi, quelle musiche così
particolari imprimevano in me quelle sensazioni che mai avrei pensato che un
giorno sarebbero state rievocate con così tanta forza e senza una vera e
propria volontà. Non saprei dire l'età in quanto da sempre sono stato a
contatto con la radio grazie a mio padre, il quale il giorno della befana –
avevo circa dieci anni – scelse di regalarmi una radiolina a transistor AM/FM
della Philips di colore bianco e nero. Ricordo con chiarezza quella fredda
mattina di gennaio che, ancora nel letto, ricevetti quel presente: avevo una
radio tutta mia, che potevo portare ovunque. Mi feci comprare anche delle
cuffiette. A quel tempo esistevano degli auricolari di colore bianco molto
delicati e scadenti di tipo «mono», poiché fondamentalmente le radio emettevano
il segnale sonoro in formato «mono». Tuttavia, quella cuffietta permetteva di
ascoltare agilmente il segnale senza disturbare l'intorno. Ricordo che da quel
giorno la radio era sempre con me. Ho costantemente portato con me un qualche
oggetto frutto delle mie passioni. In quel periodo prediligevo la radiolina a
transistor – quella ricevuta in regalo – e un piccolo vocabolario della lingua
italiana, della Vallardi Editore, regalato da mia madre e che ancora conservo.
Amavo aprirlo a caso e leggerne i lemmi uno dopo l'altro mentre la radio era
sintonizzata sulle Onde Medie, spesso Radio 2, qualche volta sulla Modulazione
di Frequenza su quel canale RAI che allora si chiamava Radio Verde RAI. Erano
gli inizi degli anni Novanta e il mondo analogico stava ancora tutto lì carico
di storia del Novecento, sebbene la minaccia del digitale e le profonde
trasformazioni tecnologiche e culturali fossero alle porte.
In quel periodo mio padre aveva messo su anche una stazione da radioamatore,
niente di super professionale, ma permetteva collegamenti sulla 27 MHz e bande
limitrofe anche a distanze considerevoli grazie ad un amplificatore finale da
200 Watt e un'antenna «ground plain» a 24 radiali. Nella mia memoria sono
depositati i ricordi dei collegamenti DX che mio padre faceva con altri
appassionati e le giornate passate a sistemare fili, antenne a misurare le
«onde stazionarie» che potevano «bruciare» il finale dell'amplificatore. In
definitiva, ho passato la mia infanzia tra le onde eteree della radio, tra
modulazioni e demodulazioni, collegamenti con pescherecci naviganti nel Mar del
Nord e chiacchierate con altri radioamatori nella cosiddetta banda CB (Citizen
Band), fino al divertimento nel prendere in giro i camionisti che si tenevano
in contatto sul famoso canale n. 5. Nello stesso periodo giravano per casa dei
libri di elettronica, probabilmente acquistati su qualche bancarella durante la
festa patronale. Un paio di tanto in tanto li sfoglio ancora e sono «Vademecum
DX», un libro dalla copertina telata verde, in voga in quel periodo e pieno di
spiegazioni su antenne, circuiti e filtri per radio ad Onde Corte mentre
l'altro era «Il manuale del CB e del radioamatore», una pubblicazione più
recente (1994) che faceva una carrellata sul mondo del radioascolto, credo
acquistato da mio padre come materiale di studio per la licenza di
radioamatore, che poi non conseguì. Ma prima ancora di sfogliare e leggere quei
libri dove potevo trovare preziose informazioni, la mia curiosità viaggiava in
sintonia con le onde della radio AM.
Radio Anni '60 Modello SR-F410 Standard Radio Corp. (SR), Tokyo
Del resto, siamo delle finestre spalancate sul mondo e, col senno di poi, posso
affermare con una certa sicurezza che a quel tempo assorbivo gli stimoli
circostanti come una spugna, suoni, odori, colori, parole. La mia curiosità di
bambino era grande, e lo e tutt'ora. Quella voglia di scoperta si declinava in
numerose passioni e si mescolava con la voglia di scoprire l'ignoto. Gli
interessi si sarebbero espansi sempre più contribuendo a formare, in un modo o
nell'altro, il nocciolo duro della mia identità. A quel tempo, nella
prospettiva della radio, l'ignoto era costituto da due mondi interconnessi. Il
primo era costituito dalla voglia di conoscere tutto ciò che era al di là della
banda AM. Mi chiedevo quali stazioni trasmettessero in quelle bande di
frequenza precedenti a quel numero segnato su quadrante della radio che era 526
KHz o superiori ai 1620 KHz. Avevo il sospetto che quelle frequenze pululassero
di trasmissioni ma la manopola della sintonia arrivava fino ad un certo punto e
poi si bloccava, come un lucchetto inviolabile posto a protezione di una porta
che dava su un mondo misterioso e da scoprire. Allo stesso modo, morivo dalla
voglia di conoscere il funzionamento intrinseco della radio. A quel tempo
smontavo tutto, forse più di quanto fanno i ragazzini intorno all'età di otto o
dieci anni. E inesorabilmente, talvolta con il disappunto dei miei genitori,
smontavo anche le radio per scrutarne i circuiti. Le vecchie radioline,
cosiddette «a transistor», erano ancora costituite da circuiti a componenti
discreti come condensatori, resistenze, trasformatori, solenoidi. Il selettore
lamellare a capacità variabile era un componente che occupava molto spazio
insieme all'antenna per le Onde Medie a nucleo di ferrite. Scrutavo quel
circuito molto probabilmente assemblato a mano con la voglia di capire qual era
il ruolo di quei componenti, cercando di scoprire fin da subito cosa potessi
modificare per fare in modo da violare il limite superiore e inferiore della
banda AM. Quando ancora non avevo sfogliato quei libri sul radiantismo che
giravano per casa – e il Web così ricco di informazioni era di là da venire,
non parliamo dell'IA generativa e dei modelli di linguaggio attualmente
fondamentali nel mio lavoro di ricerca e insegnamento – le uniche cose che
sapevo erano ciò che ascoltavo e che vedevo con i miei occhi. Immaginavo che
toccando con la punta del cacciavite alcune delle zone della piastra ospitante
il circuito o ruotando il nucleo in ferrite di quei componenti di forma cubica,
che poi scoprii essere trasformatori a media frequenza – ve ne potevano essere
presenti più di quattro –, potevo modificare la frequenza di ricezione e chissà
ascoltare trasmissioni proibite dalle specifiche tecniche di quella povera
radio tra le mie mani. Il risultato era che, se da una parte quando toccavi il
circuito con il metallo del cacciavite poteva esserci una remota possibilità di
spostare in forma abusiva un pochino la frequenza di ricezione, quando ruotavo
il nucleo in ferrite del trasformatore a Media Frequenza l'esito era disastroso
– non si sentiva più nulla, soprattutto quando manipolavo più di un componente
e non riuscivo a ritornare alla situazione impostata dalla fabbrica. In ogni
caso, avevo scoperto che la gabbia metallica di quei trasformatori era molto
sensibile e, toccandola con il dito, potevo «amplificare» dei segnali o,
addirittura, forse spostare anche un po' la frequenza. Sì procedeva per prove
ed errori finendo per rovinare irreparabilmente il settaggio dei circuiti di
sintonia e rendere la radio inutilizzabile. Tuttavia, seppur dispiaciuto del
triste esito, sentivo che avevo imparato qualcosa. Ero entrato in un mondo
nascosto che si interponeva tra quei misteriosi segnali che giungevano da
chissà dove e la loro riproduzione per mezzo del circuito e dell'altoparlante.
A dire la verità non andavo mai più lontano di questi esperimenti di fortuna,
anche se ero venuto a conoscenza tramite un altro libro, vecchio di almeno
dieci anni («Il manuale dello scienziato») e che riportava in forma illustrata
numerosi esperimenti riproducibili con piccoli componenti elettronici, che era
possibile costruire una radio AM con pochissimi e semplicissimi componenti
addirittura senza la batteria ma sfruttando un lunghissimo filo posto come
antenna, un diodo, un condensatore e uno di quegli auricolari bianchi ad alta
impedenza di cui sopra, il tutto posto a massa, ad esempio con un collegamento
ad un tubo o un rubinetto in metallo. Una conferma l'ebbi anche da mio zio che
mi disse che da giovane aveva realizzato una «radio a galena» dove la galena
doveva essere l'elemento costituente il diodo raddrizzatore usato come
demodulatore e che con tutta probabilità è un materiale leggermente
radioattivo. Al tempo in cui mio padre si dilettava con l'hobby radiantistico e
frequentavamo spesso un negozio dove poter comprare apparati e componenti
entravano in casa anche brochure di prodotti legati al mondo del radioascolto.
Amavo sfogliare quegli opuscoli ricchi di informazioni che mostravano sia
ricetrasmittenti simili ai walkie talkie giocattolo, ma con una potenza di
trasmissione sulla 27 MHz di un Watt (corrispondenti a raggiungere distanze in
linea d'aria fino a 5 Km) sia degli apparecchi portatili, noti come «radio
scanner», che potevano ricevere a copertura continua dai 500 KHz fino ad
addirittura 1500 MHz, comprese frequenze «proibite» quindi, e in vari modi di
ricezione, quali AM e FM. Sapevo che, sebbene molto costosi, un giorno uno di
quegli allora straordinari apparecchi sarebbe stato mio. Finalmente avrei
potuto svelare cosa si celava nello spettro elettromagnetico. Comunque, avrei
dovuto attendere qualche anno – la seconda metà degli anni Novanta – per avere
il tempo di mettere da parte settecentomila Lire, tanto costava.
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Raccontarsi è un po' anche fingere, ma in buona fede, poiché ci sono quei ricordi che sono lì chiari e diretti nella nostra mente in tutti i loro dettagli mentre altri appaiono più sfocati, il loro contenuto è da tempo svanito; non vi sono più particolari rimembrati ma solo sensazioni senza contenuto definito. Ad oggi, nella mezza età, sento che questo secondo tipo di ricordi sta aumentando a dismisura pronto a prendersi gioco di me nell'alimentare, goccia a goccia la nostalgia. Una nostalgia che sto raccontando attraverso le onde della radio, cercando di curarla con il tentativo di fissare quelle intense e dolci sensazioni nelle catene di parole che appaiono qui innanzi. La radio ha accompagnato la mia infanzia e, come ho già raccontato, il mio papà ha giocato un ruolo essenziale nell'introdurmi con naturalezza in questo mondo. Ma c'era anche la zia Severina, che viveva con noi, che amava ascoltare il Terzo Programma, poi chiamato Radio 3, la mattina presto e il pomeriggio. Così capitava di ascoltare quella serie di suoni e melodie che vanno a formare l'identità dei canali radio in un certo periodo storico, la cui ripetizione aggancia quel sentimento che prima o poi, per i più sensibili, diverrà una forma di nostalgia. C'era il segnale orario allora trasmesso dall'Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica di Torino (I.N.RI.M.) – precedentemente annunciato come «Istituto elettrotecnico nazionale Galileo Ferraris» – e terminato (cioè non più trasmesso come tale) alle ore 20:00 del 31 dicembre 2016. Comunque, al 2025 pare che ancora venga emesso in forma autoprodotta da RAI Radio 1 e RAI Radio 3. Questo segnale, mi riferisco al particolare trillo, aveva una funzione ben precisa per le apparecchiature ormai obsolete di trasmissione, in quanto i suoni a quelle particolari frequenze fornivano il segnale dell'ora esatta per la sincronizzazione delle stazioni e delle varie manovre effettuate dai tecnici. Con l'avvento del digitale (e della cosiddetta «trasmissione a pacchetto» caratterizzante Internet) il noto ritardo nella trasmissione rendeva superflua la sincronizzazione esatta. Ciò accadde anche al cosiddetto «uccellino della radio», che ha una storia del tutto particolare e affascinante. Mi riferisco al caratteristico cinguettio che poteva ascoltarsi fino a qualche tempo fa sulle stazioni di RAI Radio 1 e RAI Radio 3, la cui presenza è andata sempre più diradandosi, fino essere presente solo nell'annuncio del passaggio delle trasmissioni del Gr1 alle sedi regionali. In realtà, anche quel cinguettio era tutt'altro che un semplice vezzo, in quanto veniva utilizzato per riempire la trasmissione mentre i tecnici commutavano il segnale da una sede all'altra al cambio della sede di trasmissione. Tuttavia, al di là della necessità tecnica, quel cinguettio era diventato la compagnia di tutti i radioascoltatori, i quali lo rammentano con con estrema nostalgia. Ritornerò su questo ricordo quando sarà il tempo di rimembrare le trasmissioni in Onde Corte. C'erano poi i vari jingle che introducevano il Gr1, il Gr2 o il Gr3, le notizie sul traffico con Ondaverde o il meteo con Meteoradio. E poi, almeno fino al 1994 si udivano ancora le famose «campane» che alle sei del mattino aprivano le trasmissioni. Una melodia unica che è andata perduta anch'essa, composta specificatamente per lo scopo dal musicista e compositore Attilio Parrella (1874-1944) e suonata con le campane tubolari, uno strumento di ottone di origine moderna ed europea. L'ascolto di quelle campane era in risonanza con il sorgere del sole, un modo per iniziare la giornata, fin dalle prime trasmissioni ufficiali della radio da parte dell'EIAR alla fine degli anni Venti. C'era anche un'altra trasmissione di pubblica utilità ormai quasi completamente scomparsa dall'etere radiofonico e che invece fino ai primi anni Duemila appariva almeno un paio di volte al giorno sui canali Radio Rai. Immaginate una sera invernale mentre avevate le coperte fin sopra alla testa, fuori era cattivo tempo e spirava un vento gelido da Est. Voi eravata lì al caldo e al sicuro mentre stavate ascoltando con la radiolina a transistor il cosiddetto «Bolmare», l'avviso ai naviganti sulle condizioni meteo e di pericolo per la navigazione, trasmesse in Onde Corte anche da quelle che erano le stazioni radio costiere per l'ausilio alla navigazione marittima, IAR Roma Radio prima tra tutte con servizi radiotelegrafici e in fonia. Annunci di burrasche o temporali in corso sul Mar Egeo o le Baleari ti avvicinavano alla vita di quei marinai che si apprestavano a salire nelle loro imbarcazioni, navi o pescherecci, non prima di trascriverle (fino agli anni Ottanta i bollettini del mare venivano letti con lentezza e scandendo le parole, quasi in forma di dettatura). Quelle onde elettromagnetiche nella banda delle Onde Medie annuncianti una boa o un faro fuori uso sapevano catapultarmi tra le onde del mare in burrasca, nell'oscura notte tempestosa o tra i fanali inumiditi di un porto lontano. Una sensazione simile era l'ascolto, ad esempio al mattino, delle notizie sul traffico (Ondaverde), con il loro caratteristico jingle, che a loro modo mi connettevano con i milioni di automobilisti e autotrasportatori alle prese con le lingue d'asfalto. Tra tutti, forse, il più nostalgico era il messaggio di fine trasmissioni dove a notte fonda (alla mezzanotte) venivano dettagliate le frequenze notturne per le trasmissioni dalle varie stazioni dislocate sul territorio nazionale in Onde Medie ed Onde Corte e annunciata la prosecuzione con il Notturno Italiano, una delle trasmissioni più iconiche della radio (nata il 1 luglio del 1952 e con l'iconica sigla sulle note del Valzer Brillante di Nino Rota) e ad oggi (2025) la più longeva, sebbene non sia più in onda dalla mezzanotte del 31 dicembre 2011.
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Adesso, per chi ha resistito fin qui, vale la pena di ascoltare le registrazioni di alcuni dei passaggi appena descritti e disponibili sul Web. Un ringrazioamento particolare ai rispettivi uploader che hanno avuto la sensibilità e la lungimiranza di registrare questi indimenticabili passaggi che costituiscono la memoria storica della radio nazionale.
Ecco a voi le famose campane per la sigla di inizio trasmissioni RAI (fino al 1994).
Questo invece il Segnale Orario delle 05:00 trasmesso Rai Radio 1 il 07/04/2014 con Annuncio I.N.RI.M.
Qui invece si può ascoltare l'annuncio diffusione regionale con il famoso "uccellino della radio" su Rai Radio 1 e trasmesso il 19/03/2020.
Qui il Segnale Orario e la sigla di Radiogiorno (1988).
Qui il famoso bollettino del mare in Onde Medie (1988).
Un altro bollettino del mare in Onde Medie su Rai Radio 3 (1989).
Una «scarrelata» sulle Onde Medie nei primi anni Novanta (1991).
Qui l'annuncio di fine trasmissioni in Onde Medie con dettaglio delle frequenze di trasmissione delle varie stazioni in Onde Medie e Onde Corte e annuncio del proseguimento con Rai Stereo 1 (anni '80).
Qui, invece,
l'annuncio di fine trasmissioni in Onde Medie — Trasmettiotre di Siziano (PV) a 900Khz — con dettaglio delle
frequenze di trasmissione delle varie stazioni in Onde Medie e onde
Corte e annuncio del proseguimento con il Notturno Italiano in Onda Corta. La registrazione del 13 settembre del 2001 (due giorni dopo la tragedia delle Torri Gemelle) continua con l'Inno di Mameli, il caratteristico segnale in stile audioscopio, il Segnale Orario e il Giornale della Mezzanotte.
Qui invece Rai Radio 2 annunciava il termine delle trasmissioni e la prosecuzione con il Notturno Italiano dettagliando le frequenze su cui sintonizzarsi (1989), mentre in Modulazione di Frequenza le trasmissioni continuano con Rai Stereo Due.
Qui abbiamo il termine e l'inizio delle trasmissioni su Rai Radio 1 e l'annuncio della prosecuzione con il Notturno Italiano e relativa sigla. Si noti al minuto 4:23 l'inizio delle trasmissioni con il caratteristico jingle e poi l'Inno di Mameli (24 novembre 2022).
Qui, invece, inizio e chiusura delle trasmissioni su Rai Radio 1 in tempi più recenti (maggio 2023).
Per i più curiosi (e non solo nostalgici) qui una ripresa video dello studio durante una trasmissione del Notturno Italiano trasmesso su Radio 1 e Rai Internazionale (via satellite) il 5 luglio 2010 econdotta da Carlo Posio – a circa un anno dalla chiusura definitiva della trasmissione.
Qui la fine delle trasmisioni su Rai Radio 1 in Onde Medie sui 1575 KHz (Genova), Inno di Mameli e caratteristico segnale di spegnimento dei trasmettitori (14/03/2020).
E qui si va davvero nella storia della Radio: viene annunciato ufficialmente l'imminente spegnimento definitivo delle trasmissioni in Onde Medie di quella che era Rai Onda Media Unica, l'unico canale Radio Rai in Onda Media ormai ancora nell'etere in quanto Rai Radio 2 e Rai Radio 3 erano già state dismesse nel 2004.
Qui l'ultima trasmissionme del 11 Settembre 2022, ore 00.00 dalla stazione di trasmissione di Milano Siziano 900 KHz.
Chiudiamo questa carrelata con un'altra bella sequenza notturna sulle Onde Medie (1989).
Per ascoltare ulteriosi segnali di intervalo raccolti nel tempo si può visitare questo spazio Web.
Qui invece si trovano tutte le informazioni sui centri di trasmissione della RAI in Onde Medie e Onde Corte e non solo.
Su questo sito alcune informazioni interessanti sul Segnale Orario Rai, mentre qui si trova un interessante articolo al 2024 sullo stato delle Onde Medie in Italia.
Credo che il radioascolto sulle Onde Corte sia il più nostalgico di tutti e la nostalgia è un po' un sentimento diffuso negli appassionati: qui una carrelata di jingle identificativi di stazioni che potevano incontrarsi nel passato e molte di esse non più nell'etere. Comper per gli altri video, un grazie a chi ha avuto la sensibilità e la lungimiranza di registrare queste perle elettromagnetiche.
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Si dice che il digitale sia meno autentico dell'analogico poiché, tra l'altro, esclude gran parte dell'esperienza multisensoriale data dal contatto con le apparecchiature di una volta. Non solo, l'imperfezione dell'analogico sembra che fornisca un'esperienza più autentica. Credo che tali affermazioni abbiano un fondo di verità e siano valide soprattutto per la radio. Se poniamo in confronto la sintonia in AM con la fruizione della radio tramite l'app (ad esempio Ray play Sound qui in Italia per la radio nazionale) vediamo come si sono persi tutti quei suoni di interferenza e imperfezioni di modulazione che facevano percepire realmente la lontananza del sito di trasmissione. Il fruscio caratteristico delle Onde Medie rendeva l'esperienza del radioascolto come peculiare grazie al mezzo di fruizione del media, mentre l'ascolto tramite flusso digitale sull'app anonimizza e appiattisce i canali radio nazionali che si mescolano a tutti gli altri, perdendo autenticità e preminenza.
«Il medium è il messaggio» diceva giustamente Marshall McLuhan in Gli strumenti del comunicare (1964).
L'eliminazione della serie di suoni caratteristici (l'uccellino della radio e il Segnale Orario sopravvivono ancora al 2025 su RAI Radio 1) e dei jingle storici contribuiscono a tale appiattimento e anonimizzazione, creando un legame diverso con il media rispetto al passato.
La radio di un tempo, i suoi suoni e i suoi ritmi generano una nostalgia profonda e stratificata, che va oltre il semplice ricordo di un’epoca e si intreccia con l'identità del radioascoltatore, le sue passioni e persino, nel mio caso, il mio rapporto con papà. Il radioascolto non era per me solo una passione tecnologica, ma una finestra su mondi lontani, un’esperienza che evocava il senso del mistero, della scoperta, e forse anche una connessione intima con un’epoca in cui la tecnologia sembrava più «fisica», più tangibile. Ciò è tanto più vero con l'ascolto delle Onde Corte, per le quali dovetti attendere i tempi del liceo quando finalmente riuscii a mettere da parte la somma necessaria per comprare la «radio scanner» capace di coprire in vasto range di frequenze comprese l'intero spettro delle Onde Medie e Onde Corte. Una radio speciale capace di sintonizzare con copertura continua dai 500 kHz ai 1500 MHz. Finalmente avevo la possibilità di ascoltare oltre le bande allora presenti sulle radioline a transistor, oltre la banda AM dai 516 kHz ai 1620 kHz, oltre la banda FM dagli 88 MHz ai 108 MHz, scoprendo che esistevano le Onde Corte dove viaggiavano nell'etere segnali di tutti i tipi mentre al di là dei 108 MHz si aveva la banda aeronautica. In altre parole, potevo finalmente ascoltare le radiocomunicazioni dei piloti di aerei di linea commerciali con le torri di controllo dell'ENAV («Con la buonasera qui è l’Alitalia 1750 che vi parla…»).
Credo che la banda delle Onde Corte (quella oltre i 1620 kHz) sia la più misteriosa in assoluto e ancora aggi il suo ascolto regala qualche sensazione positiva. A quel tempo la radio speciale che avevo pagato più di settecentomila Lire – una radio scanner portatile Trident TR 1200 – aveva un'antenna ad asta morbida dalle dimensioni ridotte e intuivo, senza alcuna nozione specifica, che non era adatta alla ricezione dei segnali in alta frequenza. Lo intuivo poiché allora le radio a transistor, o i cosiddetti «radioloni» dotati anche di supporto a nastro magnetico, avevano antenne estensibili. Soprattutto nel caso di stazioni con segnale debole l'ascolto poteva essere sensibilmente migliorato allungando l'antenna o addirittura toccandola cosicché anche il mio corpo diventava un'antenna. Fortunatamente l'antenna della mia radio scanner si staccava e così potevo sperimentare agganciando all’ingresso dell’antenna dei fili elettrici trovati qua e là, più o meno lunghi (anche decine di metri), e constatare che la ricezione sulla banda delle Onde Corte e Medie migliorava di gran lunga. Ricordo che in uno di qui negozi di paese dove si poteva acquistare materiale elettrico mi procurai una «piattina televisiva» a 75 ohm di 20 metri che stesi lungo tutto il balcone.
Ricordo bene le serate d’inverno, quando il mondo là fuori sembrava addormentato e io, con le luci soffuse e la radio accesa, giravo lentamente la manopola di sintonia. Quella radio scanner era un portale magico che mi portava a spasso per il globo senza muovermi dalla mia stanza. Non ero un tecnico (avevo circa quindici anni), né un radioamatore professionista, ma ascoltare quei segnali, quelle voci lontane, era per me come affacciarmi sul mondo, un mondo sconosciuto tutto da scoprire.
Ogni stazione aveva la sua personalità, spesso annunciata da un segnale di intervallo, un breve jingle musicale ripetuto in loop prima dell’inizio dei programmi. Alcuni suonavano come un carillon, altri erano semplici sequenze di toni, ma tutti avevano qualcosa di riconoscibile, familiare. La BBC World Service, ad esempio, usava un frammento di «Lillibullero», che per me era come una stretta di mano rassicurante. Lo sentivo e sapevo subito: è lei. Subito dopo, le voci britanniche, eleganti, spiegavano il mondo con accento impeccabile e toni pacati.
Radio Mosca, poi diventata La Voce della Russia, aveva un segnale più solenne, quasi marziale, seguito da una voce profonda che annunciava: «Govorit Moskva...» – «Qui Mosca parla». Era una delle mie preferite, perché dietro la rigidità si sentiva un mondo distante, misterioso, inaccessibile. Le trasmissioni in italiano erano frequenti, piene di notizie e commenti con una chiara impronta ideologica, ma ascoltarle aveva il gusto di origliare oltre la cortina di ferro, anche quando essa era ormai un ricordo.
Radio Tirana, dall'Albania, sembrava un'anomalia nel panorama globale. Il suo segnale di intervallo era meccanico, quasi inquietante, e le trasmissioni sembravano ferme nel tempo, piene di riferimenti al socialismo e all’autarchia. Ma proprio per questo erano affascinanti – una voce dall’orlo di un mondo dimenticato.
Radio Nederland, invece, era come ricevere una cartolina dai Paesi Bassi. Aveva una qualità tecnica eccellente e una voce limpida, con programmi culturali e notiziari dettagliati. Anche Deutsche Welle, dalla Germania, trasmetteva con un tono professionale, preciso, quasi ingegneristico, mentre Radio Canada International portava una ventata fresca dal Nord America, con documentari ben fatti e una dizione perfetta.
E poi c’era RAI International, la nostra voce nel mondo, che spesso captavo intorno ai 6060 kHz. Il suo segnale di intervallo era uno dei più amati da chiunque avesse mai ascoltato le onde corte, un cinguettio melodioso, soprannominato «l’uccellino della radio», che si fondeva con il suono cristallino delle campane, una melodia evocativa composta da Attilio Parrelli molti anni addietro. Era come essere trasportati in un’Italia sonora e poetica, già prima che le parole iniziassero a parlare. E poi, nei momenti più silenziosi della notte, soprattutto dopo la conclusione del Notturno Italiano – quel programma musicale notturno che terminava verso le 5:57 del mattino – risuonavano le note di un carillon delicato e sognante, come ultimo saluto prima del nuovo giorno. Subito dopo, partivano notiziari, rubriche culturali, brani d’opera.
Non poteva mancare, tra le voci più distintive, Radio Vaticana. Il suo segnale era limpido e potente, frutto di una struttura tecnica imponente che irradiava da Santa Maria di Galeria, alle porte di Roma. Trasmetteva in tutto il mondo in decine di lingue, e bastava fermarsi su frequenze come 9645 kHz, 15595 kHz, o 7250 kHz per sentire l’eco spirituale di una voce che non era solo religiosa, ma anche culturale e umana. Il segnale di intervallo, solenne e sobrio, preannunciava programmi incentrati sul messaggio del Papa, la cronaca della Santa Sede, ma anche letture evangeliche, riflessioni sul mondo e un inconfondibile stile fatto di quiete e profondità. Era una presenza costante, discreta, che portava parole di fede ma anche un senso di continuità e di respiro universale. Durante alcune feste liturgiche, le dirette da piazza San Pietro si potevano ascoltare anche in onde corte: sembrava di essere lì, tra la folla, pur restando nella penombra della propria stanza.
Altre voci arrivavano da più lontano ancora. Radio Pechino, poi divenuta China Radio International, aveva una voce femminile chiara, dolce, che raccontava di una Cina in trasformazione. Spesso si ascoltavano brani tradizionali cinesi come segnale d’apertura, quasi a voler accompagnare l’ascoltatore in un altro mondo. Le frequenze più comuni si aggiravano intorno ai 9790, 11790, o 15120 kHz, variando con le stagioni.
Ma non tutto era voce. Spesso, nei momenti di silenzio tra una stazione e l’altra, si incontravano rumori strani, ronzii, tratti di codice Morse o tonalità ritmiche criptiche. Quelle erano le stazioni utility, e tra queste le più affascinanti per me erano le «stazioni a numeri». Esse trasmettevano sequenze vocali con voci meccaniche che ripetevano numeri in lingue diverse – «cinco, ocho, tres, nueve…» – e nessuno sapeva davvero cosa significassero. Alcuni dicevano che erano messaggi per spie. Altri, che fossero solo test. Io preferivo pensare che fossero messaggi segreti in bottiglia, lanciati da luoghi lontani verso chi sapeva leggerli. Ricordo che in certi momenti, anche di giorno, appariva una stazione con voce femminile meccanica che ripeteva lunghissime sequenze di numeri in alfabeto NATO. Si riceveva molto bene su alcune frequenze. A quel tempo – senza l'informazione pronta di Internet – non avevo idea di cosa stessi ascoltando e il tutto aveva un alone di mistero.
Un'altra presenza fissa era quella dei servizi aeronautici. I Volmet trasmettevano bollettini meteo con voce sintetica, e sebbene ripetitivi, avevano un ritmo quasi ipnotico. Più emozionanti ancora erano le conversazioni reali tra piloti e centri di controllo oceanici, intercettate sulle frequenze HF come 5505 kHz o 8879 kHz. Sentire un aereo diretto a Tokyo parlare con Anchorage, mentre io me ne stavo lì, in pigiama, mi faceva sentire parte di qualcosa di molto più grande.
Anche le comunicazioni marittime avevano un fascino tutto loro. Tra queste, spiccava Roma Radio, nominativo IAR, la principale stazione costiera italiana, attiva sin dal 1954. Aveva il centro ricevente a Tor San Giovanni e le stazioni trasmittenti prima a Prato Smeraldo, poi a Castel di Decima, appena fuori Roma. Roma Radio svolgeva un ruolo fondamentale nel garantire il contatto tra terra e mare, specialmente per le navi mercantili in navigazione nel Mediterraneo e oltre. Le trasmissioni avvenivano sia in telegrafia (CW) sia in fonia, e la stazione offriva anche servizi di radiotelex e telefonia radiomarittima, in modalità sia assistita con operatore che automatica. Le frequenze in onde corte erano numerose: per il traffico telefonico con operatore si utilizzavano canali come 4417, 8779, 13137, 17302, e 22756 kHz, mentre il sistema automatico Autolink sfruttava frequenze come 4390, 8713, 13182, e 17377 kHz. Ricordo distintamente di aver sentito chiamate dirette da navi con prefissi come "Italia IAR di..." seguite da una sigla alfanumerica, spesso interrotte da brevi raffiche in Morse che segnalavano l’apertura del canale. Ma Roma Radio non era solo traffico commerciale. Trasmetteva anche bollettini meteorologici, avvisi ai naviganti, e monitorava i canali VHF, in particolare il canale 16 (156.800 MHz) per le chiamate di soccorso e il canale 25 per il traffico commerciale. Era una presenza vigile, costante, che infondeva sicurezza a chi era in mare, ma anche a chi, come me, restava a terra e ne captava le tracce attraverso una semplice antenna filare. Con l’introduzione del GMDSS e delle comunicazioni satellitari, Roma Radio ha perso parte del suo ruolo operativo, ma nei ricordi di chi ha vissuto l’epoca delle onde corte, resta una voce importante: un faro etereo lanciato nello spettro radio, italiano fino in fondo, tecnico e poetico insieme.
Poi c’erano loro: i radioamatori. Persone comuni, con una passione smisurata e una capacità tecnica spesso impressionante. Parlavano in SSB o Morse, facevano QSO da continente a continente, scambiavano rapporti di segnale, si salutavano con “73” e “88”, e raccontavano le loro giornate. Ogni tanto sentivo anche italiani che parlavano con giapponesi o argentini: una rete di amici invisibili. Le bande più affollate erano quelle dei 20 metri (14000–14350 kHz) e dei 40 metri (7000–7300 kHz), specialmente durante i contest.
Altre voci ancora, più calorose, più spirituali, venivano dalle stazioni religiose. HCJB, da Quito, in Ecuador, era una delle più potenti, con una programmazione cristiana ma anche educativa. Le stazioni americane come WWCR su 5070 kHz o WBCQ su 9330 kHz mischiavano prediche, musica gospel, e ogni tanto – chissà perché – strane teorie complottiste. Alcune erano bizzarre, ma tutte avevano un tono umano, diretto, come se parlassero proprio a te.
Infine, tra le più amate e attese, c’erano le stazioni pirata. Apparivano spesso nel fine settimana, con segnale debole ma stile inconfondibile. Annunciavano sé stesse con orgoglio: “This is Radio Free Whatever, broadcasting from somewhere in Europe!” e trasmettevano rock, programmi satirici, o semplicemente rumori. Erano stazioni illegali, certo, ma erano pura espressione, libere, ribelli.
Anche i segnali orari avevano la loro poesia. Tra questi, quelli trasmessi da stazioni europee erano i più familiari. DCF77, dalla Germania, irradiava segnali su Onde Lunghe da Mainflingen, vicino a Francoforte, con una precisione assoluta, utilizzata da orologi radiocontrollati in tutta Europa. A quel tempo la mia radio non aveva la capacità di raggiungere tale banda, però ne avevo letto l'esistenza su un vecchio libro per radioamatori («Vademecum DX»). Poi c’era RWM, la storica stazione russa situata nei pressi di Mosca, che trasmetteva su 4996, 9996 e 14996 kHz, scandendo il tempo con toni continui e codici Morse. Anche HBG, dalla Svizzera, era una presenza costante, fino alla sua disattivazione, con segnali ritmati e regolari che accompagnavano le notti degli ascoltatori più precisi.
Ma tra tutti, uno in particolare mi era caro: il segnale di Torino, nominativo IBF, operato dall’Istituto Elettrotecnico Nazionale Galileo Ferraris. Trasmetteva su 5000 kHz in onde corte, con una potenza di 5 kW, dal 1951 fino al 1991. L’istituto ha poi continuato a inviare il segnale orario alla RAI fino al 2016 che lo utilizzava nei momenti di intervallo (Oggi la RAI lo autoproduce). Ogni secondo era marcato da un impulso di cinque cicli sinusoidali a 1000 Hz, mentre sette impulsi scandivano il minuto esatto. Ai minuti 50 e 60 di ogni ora, si poteva ascoltare il nominativo «IBF» in codice Morse, seguito dall’indicazione dell’ora in tempo medio dell’Europa Centrale. All’inizio e alla fine di ogni trasmissione, un messaggio in italiano, francese e inglese accoglieva gli ascoltatori. Le trasmissioni duravano 15 minuti, distribuite a intervalli nel corso della giornata, e c’era qualcosa di profondamente umano e rassicurante in quella voce del tempo che giungeva da Torino.
Ogni sera era diversa. Ogni giro di manopola portava nuove sorprese. Non sapevo mai cosa avrei trovato, e forse era proprio questo il fascino più grande: la scoperta, l’attesa, il mistero. Non era solo ascolto. Era viaggiare senza partire, era affacciarsi a mondi lontani, era sentire che l’umanità era lì, a pochi MHz di distanza.